di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Non è la prima volta che interveniamo in seguito a un recital di Maurizio Pollini sottolineando come il pianista milanese non sia più in grado da diverso tempo di sostenere con dei mezzi pianistici adeguati una forza di pensiero, di analisi, che hanno segnato un punto fermo nell’interpretazione musicale a datare dalla fine degli anni ’50, quando il giovane era giustamente un vanto cittadino se non ancora nazionale e si apprestava, attraverso le vittorie al Concorso Pozzoli e al posizionamento al secondo posto a Ginevra, a conquistare l’ambitissimo premio di Varsavia nel 1960. Da allora e fino almeno alla metà degli anni ’90 Pollini ha percorso una carriera che ha avuto pochi uguali e che lo ha consacrato come il riferimento assoluto all’interno di un gruppo di artisti contemporanei che hanno riveduto i fondamenti dell’interpretazione pianistica secondo criteri innovativi, anche se parzialmente debitori di un glorioso passato.
Pollini ha stabilito in quegli anni degli standard tecnico-interpretativi che hanno fatto scuola, ha ridotto al minimo i confini tra rendimento discografico e concertistico, tanto erano sbalorditive la sicurezza nell’approccio alla tastiera, la memoria divenuta ben presto leggendaria, l’identità tra l’atto dell’analisi musicale e la realtà della performance. Dobbiamo essere più che riconoscenti per tutto ciò che Pollini ci ha lasciato in termini di emozioni e di contagioso coinvolgimento verso i grandi temi della musica nell’arco di almeno quarant’anni, su questo non vi è dubbio alcuno. Ma come si usciva dai suoi concerti in uno stato di febbrile entusiasmo a quell’epoca, così ci è capitato di lasciare la sala con un misto di dolore e di rimpianto nel momento in cui si è verificata la perdita di una buona parte di quei mezzi che sostenevano efficacemente il pensiero musicale dell’interprete geniale. Sarebbe troppo facile liquidare questo accadimento come puro effetto di una perdita delle sole capacità “virtuosistiche”: è più corretto pensare che la forza della concezione musicale del pianista era tale da esigere una altrettanto ferrea integrità di approccio alla tastiera. Nessuno, del resto, avrebbe potuto prevedere a quei tempi un affievolimento dell’integrità fisica del pianista milanese, semplicemente perché nessuno (soprattutto tra gli ascoltatori più giovani) era in grado di prevedere gli effetti del tempo sul proprio fisico, o pensava scaramanticamente che la vecchiaia fosse un fenomeno alieno. Se si pensava alla vecchiaia, a una gloriosa vecchiaia, lo si faceva di fronte ai grandi pianisti che si sono potuti ascoltare fino ai primi anni ’90, da Rubinstein a Richter. Erano personaggi (e con loro tanti altri, da Serkin ad Arrau, da Kempff a Backhaus a Magaloff) che appartenevano a un’epoca differente, nella quale l’artista in grado di raggiungere un’età considerevole aggiustava il proprio repertorio e il proprio rapporto con lo strumento in base a una naturale evoluzione delle proprie capacità fisiche. Rarissimi erano i casi in cui un vegliardo come Rubinstein era ancora in grado a quasi novant’anni di suonare in pubblico il Pulcinella di Villa-Lobos, o la Danza del fuoco di De Falla al termine di un recital massacrante con la stessa freschezza dei propri vent’anni. Ma anche una figura gracile come quella dell’ultimo Kempff cavava ancora dalla tastiera verità assolute che ti lasciavano ammirato e commosso, e tutto sommato senza rinunciare a una certa sicurezza tecnica.
I pianisti della generazione di Pollini non hanno retto il logorio di carriere spese in continuo movimento e a contatto con repertori forse più mentalmente impegnativi, tanto da provocare un esodo di notevole entità che si è ad esempio risolto nella rinuncia alla prosecuzione della carriera da parte di artisti del calibro di Brendel, Ashkenazy o Lupu. Diverse sarebbero state le possibili vie alternative da percorrere a causa dell’ affievolimento delle proprie capacità fisiche, ma nessuno, tantomeno Pollini, ha scelto di rinunciare al repertorio che era stato il cardine dei propri successi per dedicarsi alla scoperta di luoghi meno perigliosi. L’unico elemento (rischiosissimo) che Pollini si è deciso ad accantonare oramai da molti anni è rappresentato dai Trois mouvements de Petruska, ma non così è stato nel caso dello Schumann o del Beethoven o dello Chopin più impegnativi. L’altra sera, sfidando le proprie forze anche in vista del periodo sanitario che tutti stiamo affrontando, Pollini ha deciso di confermare per il proprio consueto appuntamento scaligero con un programma che un tempo non avrebbe presentato per lui problema alcuno. E non lo ha rappresentato nemmeno adesso, almeno per ciò che riguarda gli Intermezzi op. 117 di Brahms e i Klavierstücke op. 11 e 19 di Schonberg, immersi da lui in un paesaggio autunnale che ne rivelava gli aspetti più nascosti e di più intima commozione. Non così è stato per le sonate op. 110 e 111 del venerato Beethoven, condotte attraverso difficoltà manuali e di memoria che ne hanno limitato la portata in termini assoluti e che hanno fatto pensare con rimpianto a quante volte queste stesse sonate erano state ascoltate da lui in passato attraverso una resa tecnica immacolata in grado di sostenere il lucido pensiero dell’interprete.
Il Pollini di oggi è riconoscibile quindi solamente attraverso il ricordo del Pollini di un tempo, anche se gran parte del pubblico più giovane gli tributa tuttora un applauso e gli mostra un riconoscimento affettivo al di là del reale risultato artistico.