di Francesco Lora foto © Roberto Ricci
MACBETH
Giuseppe Verdi e la scena parigina: per l’Opéra trasformò I lombardi alla prima crociata in Jérusalem e Il trovatore nel Trouvère; ex novo compose Les vêpres siciliennes e Don Carlos, direttamente e sempre su versi in francese; la revisione di Otello fu l’ultima fatica teatrale, con libretto co-tradotto da Arrigo Boito stesso. Un tantino diverso è il caso di Macbeth, creato al Teatro della Pergola di Firenze nel 1847 ed energicamente rifatto nel 1865 per il Théâtre Lyrique di Parigi: Verdi lavorò soltanto sui versi italiani di Francesco Maria Piave, nuovi o meno che fossero, e non mise becco nella versione ritmica francese – di ottima qualità letteraria – preparata da Charles Nuitter e Alexandre Beaumont; avrebbe piuttosto voluto impedire le molte libertà sparse che il teatro si prese rispetto alla partitura consegnata (tra le altre, Macduff che scippa una porzione del brindisi nell’atto II).
Quest’anno il Festival Verdi del Teatro Regio di Parma non solo si è presentato caparbiamente al proprio pubblico, sfidando con le buone norme i rischi della pandemia, ma anche si è ricordato, nelle proprie indagini filologiche o aneddotiche, di quel Macbeth parigino composto in italiano per essere però cantato, la prima volta, nella lingua di Victor Hugo. All’aperto, nel parco ducale, l’11 e il 13 settembre, l’opera è stata eseguita in forma di concerto e come nessuno l’aveva mai ascoltata, cioè nella valorosa traduzione francese ma rispettando il dettato autentico del compositore. Una sola eccezione, della quale non si comprende altra utilità che quella di risparmiare un cachet: nel finale dell’atto III, l’intervento dell’Araldo – quattro note in italiano, forse tre sole in francese – è stato cassato in favore di un’irruzione diretta di Lady Macbeth. Il concertatore, Roberto Abbado, commette una seconda scelta infelice quando, per la lettura parlata della lettera nell’atto I, fa diffondere sul tappeto immobile dell’orchestra la voce iperrealistica e preregistrata di un’attrice anziché la virtuosistica e coerente declamazione del suo soprano. Il ricordo vola poi ai due Macbeth (versione parigina ma in italiano) che lo stesso direttore aveva presentato al Teatro Comunale di Bologna nel 2013 e nel 2015: lutulento, meditabondo e sonnacchioso il primo; vivido, contrastato ed entusiasmante il secondo; entrambi privati del ballet nell’atto III – la più disinibita musica strumentale mai composta da Verdi – per via della presuntuosa regìa di Bob Wilson. A Parma ha avuto luogo la miglior sintesi di tutto: i primi due atti paiono quelli introversi del 2013, ma con una sottile vena narrativa che manda fuori gioco le vecchie critiche, mentre la seconda parte dell’opera vede replicare l’eccellente messa a punto del 2015 con ulteriori finiture drammatiche e sinfoniche, nonché con la reintegrazione del balletto (una meraviglia). Il merito è anche della Filarmonica Arturo Toscanini e del Coro del Teatro Regio, con addosso la tenace motivazione di tornare a far musica dopo un lungo silenzio. Non c’è una vera ragione filologica – va ribadito – di dare Macbeth in francese; ce n’è, al contrario, una pratica, artistica e vociologica, legata alla benedetta presenza di Ludovic Tézier nella parte eponima: se il suo canto baritonale si appoggia sulla lingua madre, la rotondità del timbro, l’eloquenza del legato e la mobilità del porgere ne guadagnano oltre ogni aspettativa e restituiscono un’incarnazione del personaggio tra le più duttili, accurate e originali mai ascoltate. Un contrasto netto e non inopportuno si ha con la Lady di Silvia Dalla Benetta: le fantasmatiche e vetrose spigolosità del suo canto, accentuate a bella posta nell’occasione, evocano da subito anche un profilo psicologico tanto ambizioso quanto in fondo leso e instabile. Il Banquo di Riccardo Zanellato suona anch’egli più autorevole, sollecito e smaltato in francese che non nelle tante esecuzioni già date in italiano, mentre un’esuberanza tutta italiana dà luce all’insieme nella corda tenorile di Giorgio Berrugi come Macduff. Fresco di giovinezza il Malcolm di Davide Astorga; minuzioso e dunque degno di cronaca il sommesso dialogo tra il Medico e la Dama, anzi tra il Médecin e la Comtesse: Francesco Leone e Natalia Gavrilan.
MESSA DA REQUIEM
Tra i melomani – anche quelli scaraventati alle responsabilità della critica musicale – è tutto un dibattere se Roberto Abbado, anche direttore artistico del Festival Verdi, sia da ritenere bacchetta verdiana oppure no. Questione sciocca: non esiste un solo Verdi né un concertatore che basti a onorarlo per intero in base a uno stesso novero di risorse. Abbado ha dalla sua un’esperienza preziosa: la consuetudine al Rossini serio e all’opera di Donizetti; ciò gli permette di leggere le partiture verdiane anche da una prospettiva che muova dall’inizio dell’Ottocento, progredendo in stile e mezzi, anziché dalla sua fine, retrocedendo negli stessi. I suoi migliori esiti si colgono, non a caso, nell’approccio alle opere giovanili. Una prova del nove è data dall’esecuzione della partitura la quale più di tutte segna il punto di frattura tra il Verdi maturo, operista a tempo pieno, e quello anziano, che compone innanzitutto per sé stesso e pretende come nemmeno prima da cantanti e maestranze: il Verdi della Messa da Requiem, eseguita il 18 settembre nel parco ducale per commemorare le vittime dell’epidemia in corso.
I complessi strumentali e corali sono i medesimi, prestanti, già ascoltati in Macbeth. L’attitudine di Abbado, però, non è quella di scatenare l’iradiddìo tra giudizi divini, cori doppi, fanfare di ottoni e colpi di grancassa: si coglie piuttosto la docile attenzione al canto, al cantante e al cantabile. Sarebbe terreno propizio per un ridimensionamento dei calibri vocali – e dei relativi vezzi – dal drammatico e muscolare al lirico e rifinito. Il soprano Eleonora Buratto coglie invece l’occasione per esibire l’ambizione di passaggio a una classe di maggior peso: perde – è inevitabile – qualcosa nella levità d’emissione e nella facilità dell’acuto, ma presenta anche un anticipo di registro di petto che sorprende per robustezza. Il mezzosoprano, Anita Rachvelishvili, si sa, è un portento della natura e dell’immediatezza comunicativa, e costituisce la conturbante gemma scura della serata. Si ritrova Berrugi nella parte tenorile, franco e naturale come in Macbeth, mentre nella parte del basso si soffre il venir meno di Michele Pertusi, corso a Vienna a sostituire Ildar Abdrazakov nel raro Don Carlos francese, originale e parigino: Roberto Tagliavini, subentratogli, è un professionista decoroso ma non un fuoriclasse.
ERNANI
Anche per quest’ultima ragione non si rimpiange l’omissione di una pagina seriore e facoltativa nell’Ernani eseguito il 25 e 27 settembre, sempre in concerto, al chiuso del Teatro Regio. Nel Finale I, con già in scena il soprano, il tenore e il baritono, il personaggio di Silva, il basso, ferma l’azione per querelarsi nel cantabile «Infelice!… e tu credevi»; la successiva cabaletta «Infin che un brando vindice» fu aggiunta, in un secondo tempo, per compiacere un interprete illustre: se è vero che raddoppia il momento di stasi, è pur vero che in concerto il problema diviene minore; e se è vero che il problema diviene minore, rimane la necessità di avere un interprete illustre. Tagliavini, come Silva, rimane corretto e non giustifica l’allontanamento dalla prima stesura. Questioni di testo: al Festival Verdi, come promette il suo stesso nome, competerebbe anche far conoscere i lati meno conosciuti di opere già popolari; non pochi sono i brani alternativi usciti dalla penna del Peppino nazionale e che meriterebbero la riproposta assai più di un Macbeth francofono e odorante di posticcio.
Nel caso di Ernani esiste addirittura un diverso Finale II che contiene un’appariscente aria del protagonista: è un peccato che a Parma si sia ancora una volta persa l’occasione di tenerne conto, così come l’anno scorso non si era colta quella di far ascoltare, nei Due Foscari e in Nabucco, la cabaletta alternativa del tenore o la parte di Fenena puntata per soprano. Ma si torna poi sulla considerazione precedente: ha senso esporre maggiormente l’interprete della parte di Ernani, se il suo porgere è timido, flebile e senile come avviene qui nel caso di Piero Pretti? Fortunatamente, le mende terminano qui. Infatti Elvira è ancora la Buratto, più a suo agio in questa scrittura fiammeggiante che non in quella della Messa da Requiem: dimostra che l’arrembaggio ai ruoli drammatici, fatti di salti di registro, apostrofi risolute e figurazioni di forza, è uno sviluppo attendibile della sua carriera. Don Carlo, a sua volta, spetta a un Vladimir Stoyanov in stato di grazia tra forbitezza tecnica, superba smaltatura e fragranza d’accento; a lui sfugge solamente – come capita del resto a tutti i colleghi – che questo personaggio regale, cioè l’eligendo e poi eletto imperatore Carlo V, al momento dell’azione sarebbe non un burbero attempato, che si ostina a reiterare le prove di forza, ma un arrogante diciottenne, già consapevole dei propri poteri. Benissimo, al solito, la Filarmonica Arturo Toscanini e il Coro del Regio (quest’ultimo benché confinato e distanziato sul fondo del palcoscenico, con dispersione di troppi suoi decibel). Formidabile, secondo aspettativa, la concertazione di Michele Mariotti: che sa sempre come mettere insieme lo sfogo dell’esuberanza quarantottesca e l’eleganza del comporre verdiano; che sa sempre come preservare la partitura nella lettera dei suoi segni senza tuttavia negare un aiuto al cantante; che sa sempre rimettere a nuovo la musica arcinota mediante l’esperienza, l’olio di gomito e nessun compromesso.