L’incrocio con uno snodo potenzialmente nevralgico nella storia dell’Alta Formazione Artistico-Musicale. In seno al convegno la presentazione del libro di Antonio Grande
di Santi Calabrò
Mentre la pandemia incide fortemente sulla musica dal vivo, protraendo le chiusure di teatri e sale da concerti, l’editoria e la ricerca legate alla musica cercano di mantenere i loro percorsi, scanditi da eventi periodici e pubblicazioni. Anche in un convegno online l’attività musicologica può così esprimere non solo la sua energia, ma anche la capacità di interagire con il quadro normativo in evoluzione delle istituzioni formative. Non è perciò passato inosservato, nel XVII Convegno Internazionale di Teoria e Analisi Musicale (26-29 novembre 2020) organizzato dal Gruppo Analisi e Teoria Musicale (GATM), l’incrocio con uno snodo potenzialmente nevralgico nella storia dell’Alta Formazione Artistico-Musicale (AFAM), che comprende anche i Conservatori. Da più di venti anni, in attuazione della Legge n. 508, i Conservatori rilasciano lauree, ma il conseguente percorso di trasformazione si è dovuto misurare spesso con risposte istituzionali tutt’altro che repentine. Eclatante, per esempio, la lentezza nel riconoscimento legale dei titoli di studio rilasciati dai Conservatori rinnovati e delle equipollenze relative ai titoli precedenti: un percorso a ostacoli che ha portato infine a traguardi solidi, ma che si è diluito in anni di lotte sfibranti invece che in pochi mesi, in sprezzo agli sforzi degli studenti e alle loro esigenze di spendibilità del titolo. Ricordiamo che gli studenti italiani seguono percorsi formativi impegnativi (prima con i diplomi di vecchio ordinamento, dopo la L. 508 con la laurea triennale + la laurea biennale), non meno dei loro coetanei europei: salvo che questi ultimi studiano in paesi dove una laurea in pianoforte, come in medicina o in lettere, era già una conquista del secolo scorso! Ora, riconosciuti i titoli, mancano ancora tanti altri risultati in relazione a strutture, organici, risorse, tipologie dei contratti, procedure di reclutamento, ricerca e percorsi post-laurea.
Ogni tanto, tuttavia, la tartaruga statale sembra trasformarsi in ghepardo. E a quel punto sorge nei destinatari un’ansia che anche il più distratto degli osservatori riconduce a una ricorrente dinamica micidiale: appare un Decreto che può segnare una svolta, richiedendo il solo corollario consequenziale di provvedimenti attuativi; ma i provvedimenti quando arriveranno? E saranno scritti in modo sensato, cioè in modo non contraddittorio col retrostante apparato normativo? Oggi siamo esattamente in uno di questi punti nodali: l’inserimento delle Istituzioni AFAM nel bando PRIN, dedicato ai progetti di ricerca e finora riservato solo alle Università tradizionali, parrebbe infatti schiudere una via non solo per gli stessi progetti, ma anche per prossime emanazioni riguardanti gli auspicati dottorati di ricerca nell’AFAM. Argomenti necessariamente coimplicati: dove c’è ricerca specialistica istituzionalizzata, c’è prima (o anche poi) un dottorato. Tutto bene, allora? Non proprio. Nel bando PRIN (Decreto Direttoriale n. 1628 del 16-10-2020) non si parla delle istituzioni dell’AFAM, e solo nelle FAQ pubblicate il 2 novembre si fa riferimento alla possibilità di farle concorrere con i loro progetti. Inoltre, a leggere il bando, il coordinatore scientifico di ogni progetto – il cosiddetto “principal investigator” – può essere «un professore/ricercatore di ruolo a tempo indeterminato in atenei statali o non statali, o un ricercatore di ruolo a tempo indeterminato … o un ricercatore a tempo determinato … che abbia ottenuto la valutazione positiva … a seguito del possesso dell’abilitazione scientifica nazionale …». E un docente di Conservatorio? Non pervenuto, al momento. La Conferenza dei Direttori dei Conservatori ha chiesto chiarimenti, e sono in corso contatti con il Ministero, sollecitato da più parti a emettere integrazioni e proroghe dei termini per presentare i progetti di ricerca. Effettivamente c’è aria di un cambio di passo, ma è ancora presto per dirlo. Nel frattempo si registra un certo fermento sui contenuti da associare sia alla ricerca che ai dottorati. Perché se è vero che nei Conservatori esistono le cattedre musicologiche, come nelle Università italiane, l’apertura alla ricerca includerà anche coloro che praticano la musica: quelli che suonano, cantano, dirigono, compongono, e che altrove – dalla Francia agli Stati Uniti, dal Portogallo alla Germania – hanno già sia i progetti di ricerca che i dottorati. La ricerca riguarderà dunque non solo le varie declinazioni della musicologia, ma anche quelle in cui la musica è proprio musica – ambiti che oggi, seguendo la tendenza a livello internazionale, è di moda riunire nel termine “performance”. In questo senso, specializzazione e trasversalità non possono che essere connessi, in prosecuzione di percorsi di formazione che a loro volta sono trasversali: quale che sia la laurea scelta, oggi in un Conservatorio si mettono insieme capacità pratiche (artistiche) con competenze culturali e teoriche attinenti.
A guardarlo con attenzione, fuori dall’Italia il settore dei dottorati in musica costituisce un insieme vario, dove interagiscono sia i portati della globalizzazione che i modelli culturali nazionali. Sarebbe quindi auspicabile, in vista del nostro adeguamento istituzionale su ricerca e dottorati, potenziare o perlomeno non deprimere nei Conservatori gli organici degli insegnamenti musicologici, che per un verso poggiano su contenuti, strumenti e metodi già sperimentati nell’Università italiana, per altro verso proseguono la tradizione dei Conservatori italiani del XX secolo: ben prima della stagione dell’“Alta Formazione”, nei Conservatori insegnavano anche eminenti musicologi. Quanto alla musicologia italiana di oggi, nel suo complesso, è di alto profilo internazionale, arricchita anche da chi opera nei Conservatori vantando pubblicazioni accademiche comparabili a quelle di chi insegna e fa ricerca all’Università. In questo senso la recente attivazione dei Trienni musicologici (con i quali anche nei Conservatori ci si può laureare in musicologia) sembra andare nella giusta direzione. Parrebbe ora logico agire tutti insieme – esecutori, compositori, musicologi – per essere pronti a produrre anche ai livelli alti progetti e percorsi sia specialistici, sia trasversali. Per la verità, invece, i destinatari del percorso appaiono compatti nel reclamare il loro spazio e la loro crescita, ma un po’ meno omogenei nel cercare di definire le linee generali del modo in cui si accoglierà il nuovo (la ricerca e i dottorati anche nell’AFAM) senza perdere di vista identità e preziose risorse, anche in termini di duttilità metodologica. In questo quadro, in attesa delle mosse ministeriali, ben vengano i dibattiti, e anche al convegno del GATM si è avvertita una certa tensione dialettica nella specifica sessione sulla ricerca artistico-musicale e le sue prospettive. Per due ragioni le sollecitazioni dell’attualità che abbiamo richiamato non potevano, da parte del GATM, essere eluse: perché le sue attività (ricerca, convegni, pubblicazioni) vedono da decenni il paritario contributo di docenti provenienti dalle Università e dai Conservatori, e perché la focalizzazione sull’analisi musicale spinge di per sé a cercare collegamenti trasversali, piuttosto che a mantenere un’anacronistica dicotomia fra teoria e prassi. Proprio il versante degli studi analitico-musicali, specifico del GATM, si trova anzi naturalmente reclutato in prima linea nell’attuale fase di spinta in avanti dei processi di adeguamento universitario dell’AFAM; i rapporti tra l’analisi e l’interpretazione musicale, infatti, sono oggi una voce eminente della ricerca internazionale, e lo stesso GATM riserva una parte della sua attività convegnistica ai concerti-analisi, cioè a interpreti che fanno contemporaneamente ricerca musicologica. Il dibattito al convegno ha visto il confronto di diverse posizioni sul punto dell’incidenza dell’aspetto storico ed ermeneutico anche in progetti di ricerca che riguardano gli esecutori, dove per alcuni studiosi appare invece più immediato il collegamento con approcci musicologici di impianto sistematico piuttosto che storico, e particolarmente con quelli direttamente contigui alle “scienze esatte”.
Alla fine, ed è di conforto, sia nella sessione dedicata che in altri momenti del convegno si è potuta registrare una certa convergenza di posizioni sulla necessità di tenere sempre aperto – nel progettare nuove stagioni di ricerca – sia il legame con la storia della musica, la sua visione epistemologica e le sue discipline specifiche, sia il legame con le tradizioni culturali, didattiche e metodologiche italiane, quelle del Conservatorio e quelle dell’Università. In questo senso, ancor più che i propositi, parlano i fatti, cioè la concreta varietà degli interventi al Convegno e dei suoi momenti di approfondimento. Fra questi, un’interessante tavola rotonda su Bruno Maderna e la presentazione di un libro adatto a illustrare quell’interrelazione di umanistico e di scientifico, di storia e di sistemi, di prassi e di teoria, di strutture e di vissuto, che costituisce l’orizzonte ideale della musica e della ricerca: il volume di Antonio Grande Una rete di ascolti. Viaggio nell’Universo musicale neo-riemanniano (Aracne 2020). Il libro verte su una teoria che oggi costituisce uno dei riferimenti di elezione dell’offerta analitico-musicale internazionale; come ha ben rilevato Duilio D’Alfonso, che lo ha presentato insieme all’autore e a Mario Baroni, Grande non si limita a introdurre il lettore italiano in un mondo complesso con esemplare chiarezza, ma ne offre una «sintesi valida anche nel panorama internazionale, essendo questo mondo sparpagliato in una miriade di contributi di vario genere». Al pari di un altro contributo precedente di Antonio Grande (Il moto e la quiete, Aracne 2011), anche in questo monumentale lavoro il riferimento a teorici diversi si esplica in operazioni di sintesi, comparazione e valutazione critica ad ampio raggio, ma assume anche uno sviluppo autonomo, dato che Grande inserisce le sue analisi e contribuisce a (ri)modellare il quadro concettuale di continuo. Nobile divulgazione e ricerca originale sono qui inestricabili, e il “viaggio” risulta avvincente anche per chi si è già addentrato in quell’universo. Dato il profilo di D’Alfonso, profondo conoscitore delle teorie del linguaggio oltre che musicista e musicologo, la contestualizzazione e le parentele teoriche dell’universo neo-riemanniano hanno ricevuto nella presentazione un’attenzione capillare: «concentrare l’attenzione sulle relazioni tra gli oggetti, piuttosto che sugli oggetti, è il caposaldo della rivoluzione strutturalista nel pensiero del Novecento, da Saussure a Lévi-Strauss, e fino a Piaget, dalla linguistica all’antropologia, e fino alla psicologia dello sviluppo». Se tuttavia le teorie neo-riemanniane rimandano a una cornice strutturalista, D’Alfonso ricorda come l’influsso del cognitivismo sulla musicologia abbia guardato più a Schenker che a Riemann, per cui «il paradigma neo-riemanniano è cresciuto in ambito logico–algebrico, piuttosto che psicologico». Le trasformazioni fra accordi vengono infatti catturate da sequenze operazionali che manifestano le proprietà di base delle strutture matematiche: «mettere capo all’identità, alla relazione riflessiva che mappa qualcosa in sé stessa, e al tempo stesso sviluppare l’identità, mostrarne le possibili articolazioni interne». Un approccio analitico di questo tipo non può non influire su vari aspetti della conoscenza musicale, rivolgendosi sia ai musicologi che agli interpreti.
Il titolo del libro, centralizzando il versante dell’ascolto, risponde anche ad una diffusa sensibilità per l’aspetto della ricezione, che percorre effettivamente la teoria neo-riemanniana e viene notevolmente sviluppato nel libro di Grande. Ma questo non deve apparire un vincolo: come la “teoria dell’ascolto responsabile” di Adorno non impedisce a chi preferisce ascoltare la musica “irresponsabilmente” (cioè senza tematizzare le condizioni della sua struttura mentre la ascolta) di trovare per altri aspetti interessanti gli scritti adorniani, anche le analisi neo-riemanniane si rivelano fonte di potenziali conoscenze e applicazioni anche non considerandole in quanto “pedagogia dell’ascolto”. Per finire, ma in realtà per cominciare, nel libro irrompe da subito il punto di vista storico: e in questa priorità di enunciazione si riconosce un contrassegno della cultura italiana. Nella presentazione a voce cui abbiamo assistito anche Mario Baroni si è soffermato su aspetti psicologici, ma nella prefazione del libro lo stesso Baroni orienta il lettore a uno sguardo storiografico: «solo verso la fine del Novecento qualcuno ha cominciato a scoprire che nei passaggi apparentemente inspiegabili di molta musica ottocentesca che non obbediva più alle regole tonali del passato si celava qualcosa di spiegabile e di perfino sorprendentemente facile», atteso che osservando la musica in quanto sistema i passaggi fra gli accordi rivelano «proprietà di simmetria stupefacenti e inattese». Pur aprendo al problema del rapporto tra il senso della musica e le simmetrie degli analisti, Baroni ricorda come «costruire musica con finalità espressionistiche risultò possibile solo ricorrendo all’aiuto di simmetrie matematiche e geometriche che potevano sostituire le regolarità grammaticali della sintassi precedente» e osserva che «al di là della musica… anche nella stessa poetica dell’espressionismo… l’urlo e la geometria furono fra i simboli più significativi di quell’epoca». Di fatto, proprio l’oggetto del volume di Grande, osserva ancora Baroni, sorge in relazione alla creatività di musicisti che imprimono al linguaggio una svolta di portata difficilmente sopravalutabile, «l’ultima che si possa considerare scaturita dalla sola vecchia Europa». Nel libro anche Antonio Grande pone subito le ascisse e le ordinate storiche del suo contenuto: la teoria neo-riemanniana, «benché sia nata di recente, non più di una trentina di anni fa… si riferisce a un periodo – l’Ottocento, soprattutto nella sua seconda metà – che ha vissuto uno dei più cruciali e profondi cambiamenti di paradigma della modernità». Dunque, continua Grande, è «espressione di questo nuovo modo di sentire, di “vedere”, di relazionarsi, di vivere il proprio contesto». Poste queste premesse, consapevolezza dei nodi storici e sguardo filosofico ad ampio spettro, prima che sistematico nel senso delle declinazioni disciplinari, accompagnano tutto il volume.
Antonio Grande insegna al Conservatorio di Como: la ricerca musicologica italiana oggi è a questo livello, anche nell’AFAM. E proprio in questi tempi la politica mostra segnali di volerne prendere atto in modo adeguato. L’uscita dalla pandemia riaprirà i teatri nel mondo, speriamo presto, ma spetta a chi governa far sì che tra il pubblico e sul palcoscenico, nei convegni e nelle pubblicazioni, possiamo vedere anche i Dottori di ricerca, insieme agli studenti e ai laureati, dei Conservatori italiani. Che sono più che pronti.