di Marco Testa foto © Silvia Rizzi
Alfred Brendel compie novant’anni. Nacque infatti il 5 gennaio 1931, stesso giorno (naturalmente in anni diversi) di due suoi grandi colleghi italiani: Arturo Benedetti Michelangeli e Maurizio Pollini. Una lunga vita, quella del poliedrico artista nato nella piccola cittadina morava di Wiesenberg, svoltasi nel segno di un’intensa attività musicale ai massimi livelli, una carriera pianistica brillante di un pianismo per certi versi istintivo e tuttavia incardinato nel ragionamento e in una cultura profondissima; un percorso per certi versi inusuale, intenso non meno della sua attività critica e musicologica, espressa questa attraverso densi e acuti saggi (non tutti tradotti in italiano), tra cui il celebre Paradosso dell’interprete e le conversazioni con Martin Meyer ne Il velo dell’ordine. Artista di vaste prospettive, Brendel è innanzitutto un mitteleuropeo di ferro con ascendenze tedesche, friulane e slave; mitteleuropeo per radicamento familiare, per cultura, per convinzione e per inclinazioni musicali, nette sin dalla giovinezza, senza indugi ribadisce «che le composizioni importanti» – così affermò conversando proprio con Meyer – provengano «nella maggior parte dalla Mitteleuropa», senza scordare però il suo entusiasmo per la gaiezza solare e mediterranea di Domenico Scarlatti e il profondo interesse per gli autori russi, da Balakirev a Stravinskij a Prokof’ev, di cui registrò, giovanissimo, il Quinto concerto per pianoforte e orchestra. Un repertorio che per sua stessa ammissione soltanto occasionalmente ha varcato le porte del XX secolo e che è largamente radicato nel cantabile. E tuttavia quest’uomo che quasi non ha eseguito nessun compositore successivo alla Seconda scuola di Vienna (è stato tra i più grandi propugnatori del Concerto per pianoforte di Schönberg) ma tra i più entusiasti sostenitori, ancorché soltanto da osservatore, dei linguaggi contemporanei.
Un repertorio pertanto vasto ma non onnivoro, come vasta è la sua discografia, la quale comprende, oltre al poderoso, gigantesco cimento solistico che tutti conoscono, molta musica da camera, dallo Schubert del celeberrimo quintetto Die Forelle ai cicli di Lieder dello stesso compositore austriaco (vogliamo ricordare almeno la Winterreise con Fischer-Dieskau), dal Mozart dei Quartetti con pianoforte alle Variazioni per violoncello e pianoforte di Beethoven, da Schumann a Dvořák e così via.
Un percorso per certi versi inusuale, si accennava poco sopra, specialmente nei suoi primi passi. In un brillante saggio proprio su Brendel, Piero Rattalino sottolinea che la sua carriera non fu affatto fulminea. Nessun importante concorso vinto in gioventù, al contrario dei Pollini, dei Gulda o dei Michelangeli, ma soltanto un quarto posto al concorso di Bolzano, nel 1949, all’età di diciotto anni. Un pianismo senza troppi colpi di scena, non molto teatrale (forse Brendel teneva a mente il detto busoniano, secondo cui il sentimento celato agisce con maggior forza di quello esibito?). Del resto non è stato forse lo stesso Brendel, non senza una punta di civetteria e di narcisismo, a rimarcare in più di un’occasione il suo esser stato in gioventù essenzialmente un outsider, un talentuoso giovane che tendeva a dissociarsi da certi meccanismi in voga presso alcune istituzioni musicali e da certi atteggiamenti di molti altri musicisti? Presumibilmente Brendel, persona intimamente sicura di sé, aveva capito che il suo percorso per certi versi irregolare gli avrebbe dato ragione sul lungo periodo, cosa che in effetti fu. Il Brendel-tartaruga del saggio di Rattalino è un’immagine davvero azzeccata.
Outsider ma anche pioniere, segnatamente del recupero dell’Haydn pianistico, contribuendo alla diffusione delle composizioni per strumento a tastiera di quest’ultimo non meno di quanto gli riuscì con Schubert, anche se relativamente all’autore dell’Incompiuta Brendel era stato preceduto, per la verità, da illustri colleghi sin dalla prima metà del Novecento; per Haydn, Brendel ha dunque fatto qualcosina in più: ha contribuito a sdoganare un autore che in realtà tutt’ora stenta a entrare davvero nel repertorio dei pianisti, ciò che vale tanto per le sonate quanto per i (pochi) concerti (in tal senso Brendel sembra non essersi avventurato molto oltre al Concerto in re maggiore, probabilmente il più noto). Ed è interessante il fatto che Brendel sia stato tra i primi a comprendere e a mettere in risalto il forte spirito comico che talvolta pervade la musica di Haydn, ciò che risulta più evidente nella sua produzione sinfonica e un po’ meno in quella per strumento a tastiera. Dotato di un certo senso dell’umorismo, anzi forse di una qualche tendenza persino clownesca che gli permise meglio di altri di cogliere questi aspetti in musica, nel 1984 Brendel venne persino invitato a Cambridge per tenere una «Darwin Lecture» dal titolo Does classical music have to be entirely serious? (qualcuno si è chiesto se Frank Zappa lo venne mai a sapere: all’incirca nello stesso periodo iniziò a registrare l’album intitolato Does Humor Belong in Music?).
Artista mitteleuropeo, saggista dalla penna acuminata, Brendel incarna altresì bene la figura dell’autentico intellettuale della musica, interprete importante ma anche pittore dilettante, appassionato lettore di romanzi e pure esperto cesellatore di versi poetici; la cultura artistica e musicale brendeliana si è formata attraverso questa molteplicità di esperienze, che a un tempo sono la causa e l’effetto del suo modo di suonare, quindi del modo in cui riesce a restituire al pubblico i vari linguaggi e i loro autori, sebbene d’altra parte egli insista sul fatto che l’interprete debba sforzarsi di consegnare, per quanto possibile, il compositore così com’è. E nel suo percorso appare naturale la volontà di svelare le segrete affinità tra diversi ambiti della società, della cultura, dell’arte: noto è l’accostamento, tutto brendeliano, tra Franz Schubert e il pittore Francisco Goya, accomunati dalla capacità di esplorare la tragicità della condizione umana. Non ci si stupirà pertanto del fatto che nel 2009, all’indomani dall’addio alle scene, dichiarò alla rivista Gramophone di non voler essere “soltanto” un pianista o un musicista e che anzi desiderava dedicarsi anche ad altro; così come non ci si stupirà del suo interesse per compositori quali Liszt e Brahms, percepiti come musicisti più degli altri in possesso di una maggiore visione d’insieme. Passa anche attraverso concetti analoghi il fatto che Brendel fosse un pianista di quelli che anteponevano la musica allo strumento. Prima la musica, poi il pianoforte, potrebbe dirsi per il Nostro: nella già citata conversazione con Martin Meyer fece un’affermazione in tal senso piuttosto chiara: «per me la musica puramente pianistica costituisce l’eccezione, la regola invece è la musica che al pianoforte affida tutto quanto alla musica è possibile». Lo stesso fatto che l’ammirazione per certi pianisti si accompagni in Brendel a quella per cantanti, per direttori d’orchestra, per attori persino, rientra perfettamente nella sua logica e nella sua estetica. Era quindi inevitabile che tutto ciò si riflettesse sul Brendel pianista non meno che sul Brendel saggista. Quando sedeva davanti allo strumento, mostrava sempre una particolare comprensione e cura delle proporzioni, della struttura, una non comune consapevolezza dell’intera drammaturgia del brano, di tutto ciò che stava all’interno e intorno a un movimento di sonata, al significato della composizione nella sua totalità. Come, per dirne una, nelle sonate di Beethoven: gli esempi che si potrebbero citare sono molti, ma viene subito in mente una splendida 109 del 1996 (Decca). Ma gli aspetti più rilevanti del pianismo brendeliano riguardano anche una certa sensibilità per la progettualità artistica, per una visione estetica: se è vero, come scrisse Edward Said, che «alcuni programmi sono interessanti perché presentano al pubblico un racconto», sarà a tutti chiaro l’interesse che Brendel è capace di destare in particolare in alcuni suoi dischi e in alcune sue esibizioni pubbliche, tramite accostamenti ragionati ed efficaci; egli appare interessato a queste esplorazioni con un’intelligenza e una progettualità che ricordano, mutatis mutandis, un András Schiff, per non citare che un caso molto celebre di raffinato pianista-pensatore, costruttore di programmi mirabili.
Eppure Brendel, quest’uomo tanto acuto, così profondo e a suo agio nelle riflessioni più ardite sull’arte dei suoni come sulle altre arti, si mostra non certo privo, talvolta, di pregiudizi e giudizi tranchant: così, ricorda Richter, per Brendel Edvard Grieg non sarebbe altro che un «compositore per cameriere», mentre occuparsi di Rachmaninov sarebbe da ritenersi «tempo sprecato». E tutto questo senza scordare le stilettate ai due grandi colleghi-avversari suoi coetanei, Glenn Gould e Friedrich Gulda. Ad esempio si stenta a credere che Brendel possa aver davvero pensato che nelle sue interpretazioni, Gould volesse limitarsi a stupire il pubblico, o che non si curasse affatto del carattere del pezzo, arrivando a dire, pur dovendo ammettere che con il pianista canadese si potevano fare talvolta interessanti scoperte, che queste ultime sarebbero dovute non a una penetrazione psicologica del pezzo, bensì al caso. Giudizi superficiali, frettolosi, forse tendenziosi, ad ogni modo distanti dall’acume critico di chi li ha pronunciati, ciò che però, più che rendercelo distante, invoglia piuttosto ad avvicinarlo, a rileggerlo, a coltivare le sue doti di saggista e di pensatore, quindi a riappropriarsi della visione e dell’universo sonoro di un artista che è stato tra i più importanti protagonisti della scena pianistica per circa sessant’anni.