di Luca Chierici foto © Brescia&misano
L’attuale offerta di musica dal vivo è andata notoriamente incontro ai mille problemi causati dalla pandemia, e a causa di ciò si sono moltiplicate le iniziative di trasmissione di eventi musicali situati in teatri e sale da concerto senza la presenza del pubblico. Ciò ha portato evidentemente a un problema non sottovalutabile da parte della critica: fino a che punto ci possiamo accontentare di commentare una registrazione, anche live, di uno di questi eventi, pur avendo a disposizione un impianto di riproduzione ad alta fedeltà che restituisce in maniera ottimale le condizioni di ascolto originali in sala? L’emissione via rete dei contenuti di un concerto o di un’opera assomiglia molto, nelle attuali condizioni, alla visualizzazione e ascolto di una sessione di registrazione in studio, soprattutto perché manca la presenza del pubblico. E anche se in questi casi non si assiste a interruzioni e ripetizioni di fasi parziali dell’esecuzione, il pubblico domestico non ha esattamente la sensazione di essere di fronte a una esecuzione dal vivo in una sala da concerto. Non è un problema di qualità del suono: le differenze tra il “live” in sala e quello ascoltato attraverso un buon impianto ad alta fedeltà sono oramai quasi inesistenti, semmai interviene il problema del posizionamento dei microfoni, cui accenneremo più avanti. E non è neanche un problema di qualità del video. Anzi, in alcuni casi la ripresa permette di vedere direttori, solisti, orchestre, cantanti in base ad angolature variabili che estendono di gran lunga i vincoli del “posto fisso” in sala. Manca invece la presenza del pubblico, da quello chiaramente percepibile in un teatro (compresa quella parte del pubblico che magari ci infastidisce bisbigliando, scartando caramelle o sfogliando rumorosamente il programma di sala) a quello visibile durante i normali collegamenti dal vivo trasmessi sugli schermi di casa nostra (un esempio per tutti è il famoso Concerto di Capodanno, quello d.o.c) . Un secondo aspetto che si percepisce è una certa freddezza da parte degli interpreti, privati della presenza del pubblico stesso. In ultimo, un particolare non secondario: mentre l’appuntamento per una esecuzione in teatro è inderogabile e necessita del rispetto assoluto di un orario, per i nostri ascolti casalinghi optiamo in genere, ove possibile, per un podcast o streaming differito e raramente – a meno di eventi indifferibili – rinunciamo alla cena o ad altri appuntamenti “reali” per metterci in ascolto davanti agli apparecchi domestici.
Facendo per il momento di necessità virtù, e sperando che le condizioni al contorno cambino presto, ci siamo quindi posti all’ascolto leggermente differito del concerto trasmesso il 9 gennaio scorso dal Teatro alla Scala, protagonista la Filarmonica diretta dal trentenne Lorenzo Viotti, figlio d’arte di cui ci eravamo già occupati nel recente passato sul Corriere Musicale a proposito del debutto sinfonico scaligero e della ripresa di Roméo et Juliette di Gounod alla Scala nel gennaio dello scorso anno. Abbiamo ritrovato Viotti in buona forma ma leggermente cambiato rispetto alle impressioni che avevamo tratto dal suo primo incontro, non si saprebbe dire se a causa della particolarità dello streaming senza pubblico o di altri motivi a noi sconosciuti, tra i quali potremmo pensare esista la disposizione dei microfoni, che rischia di porre troppo in risalto e in maniera non voluta espressamente dal direttore alcune voci secondarie . Si può in parte ipotizzare che il programma presentato da Viotti in passato per il suo debutto scaligero (il wagneriano Siegfried-Idyll, il Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy, L’isola dei morti di Rachmaninoff, e Le poème de l’extase di Skrjabin, ossia pagine in forma più libera e in un paio di casi dirette senza la bacchetta, fosse più nelle corde del direttore rispetto alla scelta di due sinfonie di impianto non sottovalutabile in quanto a difficoltà.
Viotti, non nuovo alla concertazione almeno della prima partitura in programma (la terza sinfonia di Brahms), ha ottenuto buoni risultati dall’orchestra ma non è sembrato rivolgersi all’orchestra stessa, almeno nel primo movimento, tramite un gesto chiaro, efficace e soprattutto marcato da una certa fluidità al posto della quale si è notato un certo grado di meccanicità, di rigidità non particolarmente piacevole da seguire in video. Si suppone che il repertorio sinfonico brahmsiano rientri oramai nel patrimonio genetico di una compagine come la Filarmonica della Scala, che ha avuto modo di studiare questi lavori anche attraverso la mediazione di grandi nomi quali Solti, Giulini, Maazel, Sawallisch fino a Chailly e Gatti. La lettura di Lorenzo Viotti dell’op.90 di Brahms ha potuto evidentemente contare su questa formazione dell’orchestra negli anni passati e non si è discostata di molto da certi parametri che delimitano i confini di una interpretazione e che non lasciano del resto spazio a grandi scostamenti. Ci si attendeva però una maggiore attenzione ai dettagli e a una visione più continua del discorso musicale oltre che verso l’accumulazione delle tensioni in alcuni punti strategici della partitura (ma bene ha realizzato Viotti il fugato che si ascolta nella coda del primo movimento, esempio magistrale di sfruttamento di una semifrase del tema principale a scopi drammatici). La visione interpretativa di Viotti si è meglio palesata nel corso dei movimenti seguenti: l’Andante al secondo posto ha rivelato con il giusto peso i diversi interventi timbrici dei fiati, ad illustrare le numerose sfaccettature descrittive del tema principale e le relative risposte. La presentazione del crepuscolare Poco Allegretto ha avuto il solo difetto di non discostarsi affatto dalla metrica del movimento precedente, generando un imprevisto senso di continuità ma l’Allegro finale è risultato più convincente grazie alla non scontata abilità nel coniugare gli elementi diversissimi tra loro che caratterizzano questa conclusione della terza.
Più efficacemente motivato è sembrato Viotti nella presentazione della Settima sinfonia di Dvořák, legata al numero precedente in programma proprio perché scritta dopo che l’autore aveva ascoltato l’op.90 del grande collega e amico, e considerata da molti musicologi come il risultato più alto raggiunto da Dvořák in questo comparto della sua produzione. Seguendo una fonte di ispirazione più personale e diremmo meno timorosa se confrontata a quella che caratterizzava la prima sinfonia in programma, Viotti ha soprattutto insistito – come ha anche rivelato in una intervista rilasciata poco prima del concerto – su un possibile lato demoniaco dello Scherzo e su un significato patriottico e liberatorio che caratterizzerebbe il Finale, raggiungendo un risultato esecutivo di tutto rispetto e mosso da una convinzione che, come è successo in questo caso, aiuta l’interprete a proporre una visione personale convincente anche se talvolta al di fuori dei percorsi già seguiti dalla tradizione.