di Gianluigi Mattietti
Grigory Sokolov è di casa a Santa Cecilia. Vi si era esibito per la prima volta nel novembre del 1969, a soli diciannove anni (tre anni dopo aver vinto il Concorso Internazionale Ciajkovskij) suonando il Concerto n. 3 di Rachmaninov, diretto da Franco Mannino.
Da allora ci è tornato più di venti volte, diventando un beniamino del pubblico romano. A 72 anni, è ormai avvolto in un’aura mitica, anche perché è un artista schivo (non rilascia interviste, annuncia i suoi programmi sempre all’ultimo momento, limita i suoi concerti all’Europa centrale, a causa della sua avversione per i lunghi voli), maniacale (prima di ogni concerto passa ore sul palcoscenico ad analizzare le possibilità dello strumento con cui dovrà suonare; è esigentissimo sull’accordatura del pianoforte), refrattario alle incisioni discografiche (è stato lontano per anni dalle sale di registrazione; e comunque preferisce sempre la spontaneità dell’esecuzione “live”).
Ma le sue letture pianistiche lasciano davvero il segno, e lo ha dimostrato ancora una volta a Roma, per l’approccio interpretativo sempre originale, mai scontato, la ricchezza e la varietà del suono, l’articolazione sempre nitida, una profondità capace di ipnotizzare l’ascoltatore, soprattutto nei lavori fatti di brevi sezioni, come quelli scelti nel concerto di Santa Cecilia. Delle 15 Variazioni e Fuga op. 35 di Beethoven, nato come studio preparatorio per il finale della Sinfonia “Eroica”, Sokolov ha offerto una lettura trasparente, molto rispettosa della pagina scritta e soprattutto delle dinamiche, ma trovando allo stesso tempo una vasta gamma di atmosfere, imprimendo a ogni variazione un particolare carattere timbrico, facendo emergere ora gli aspetti brillanti, ora quelli percussivi, evidenziando i tratti ironici, articolando sempre le voci interne, intonando come una preghiera la Variazione XIV in minore, leggendo la fuga finale come un percorso drammatico.
Nei tre Intermezzi op.117 di Brahms, il pianista russo ha ben colto la modernità del montaggio frammentario di incisi e di voci interne, ma con colori pastello, molto sensuali e con un eloquio sempre espressivo, avvolgendo tutto di malinconia. Il primo intermezzo scorreva fluido come una ninna nanna cantilenante, il secondo procedeva quasi esitante, con accenti struggenti, il terzo si muoveva come in un tempo sospeso, in una dimensione onirica. Il programma si chiudeva con la Kreisleriana di Schumann, un autore meno frequentato da Sokolov rispetto ai prediletti Bach, Beethoven, Schubert, Brahms, Chopin: non c’era agitazione febbrile nella sua lettura, che sembrava piuttosto un’esplorazione dei tesori timbrici nascosti nelle variazioni schumanniane, che coglieva le sfumature dinamiche nel pianissimo, che giocava con i riverberi, con le sottili fluttuazioni di tempo, cercava atmosfere diafane (II), misteriose (III), trasformava il tema cavalleresco dell’ultima variazione in una melodia sognante, sottolineata da soffici accordi. Il risultato era un mondo sonoro fantastico, ipnotico, che rievocava la magia dei racconti di Hoffmann. Dopo averlo irretito, Sokolov si è congedato dal pubblico, con sei bis: ancora Brahms con la Ballade dall’op.118, e con una serie di preludi (i Preludi op.23 n.9 e n.10 di Rachmaninov, il Preludio op.11 n.4 di Scriabin, l’energico Preludio op.28 n.20 di Chopin, il preludio-Corale Ich ruf’ zu dir, Herr Jesu Christ di Bach-Busoni) che apparivano come un’ulteriore antologia di possibilità pianistiche, tra virtuosismo e introspezione.