di Gianluigi Mattietti
Il festival Archipel negli ultimi due anni ha cambiato pelle. Ha ampliato le proprie prospettive nel campo della musica contemporanea esplorando le più varie forme di arte sonora, cercando di intercettare un pubblico vasto, molto variegato, insomma, non di “specialisti”, alternando ai concerti, installazioni, conferenze, progetti interdisciplinari, spettacoli per bambini, performances, seguendo una tendenza tipica della musica del XXI secolo, dove i generi tendono ad ibridarsi, dove predomina l’idea che il suono può prender forma con un’orchestra sinfonica, con un ensemble strumentale, ma anche con un set di altoparlanti, con un apparato meccanico, con un’installazione.
Spazio ideale per queste sperimentazioni a Ginevra era la Maison communale de Plainpalais, dove alla sala da concerto si affiancavano vari luoghi di incontro, una biblioteca, un ristorante, una sala giochi (tra i vari intrattenimenti musicali per i bambini c’era anche il “gioco del critico musicale”, che consisteva nel combinare una serie di parole date, per definire un determinato fenomeno musicale), una sala d’ascolto con un acusmonium: un’orchestra di circa 60 altoparlanti e una spazio per il pubblico completamente imbottito, dove gli spettatori erano invitati, in concerti a tarda notte, a distendersi, per dimenticare anche il peso del proprio corpo, e concentrarsi solo sull’ascolto. In questa dimensione di “total relax”, si è potuta ascoltare anche una interessante selezione di lavori storici, compositi negli anni Settanta (di Greta Monach, Warren Burt, Toshi Ichiyanagi, Satoshi Minami) e una nuova composizione dello svizzero Vincent de Roguin, intitolato Pour d’autres saisons, scaturito da una serie di ricerche intorno a un sistema di generazione elettronica semi-automatico, come un “ecosistema” capace di generare eventi sonori imprevedibili.
Non mancavano però nella rassegna concerti tradizionali. E a Ginevra non potevano mancare l’ensemble Contrechamps e l’Orchestre de la Suisse Romande, riuniti con l’Orchestre de la HEM (Haute École de musique) per un concerto alla Victoria Hall diretto da Peter Eötvös, che è stato uno dei momenti clou dell’intera rassegna. Il compositore e direttore ungherese (che ha trascorso un lungo periodo a Ginevra per la sua opera Sleepless messa in scena al Grand Théâtre, e per i corsi di perfezionamento alla HEM) ha diretto due suoi lavori recenti, e molto riusciti, Cziffra Psodia (2020) per pianoforte e orchestra, e Fermata (2021) per ensemble, insieme a Changing (2020) della compositrice slovena Nina Šenk e al Concerto per orchestra di Witold Lutosławski. Scritto per il centenario di Georges Cziffra, che Eötvös conobbe da bambino e cui rimase a lungo legato, Cziffra Psodia era costruito come un diario musicale, una narrazione “ra-psodica” e drammatica (come fu la vita di Cziffra), basata su un tema ricavato dal nome del pianista ungherese, e intessuta di espliciti riferimenti biografici: vi si alternavano zone cupe, dominate da ottoni gravi, pulsazioni marcate delle percussioni (riferite all’episodio della prigionia di Cziffra, condannato ai lavori forzati dopo un tentativo di fuga dall’Ungheria), interventi delle trombe con sordina, crescendo magmatici, screziature metalliche del cimbalom suonato da Lukács Miklós (era un omaggio al padre di Cziffra, virtuoso di questo strumento), interventi del violino solo (come fosse la voce del compositore). Tutti questi elementi erano tenuti insieme all’interno di una trama orchestrale dai colori sgargianti, che costituiva quasi lo “spazio scenico” di questa narrazione, con una parte pianistica sempre presente, punteggiata da numerose, virtuosistiche cadenze, e interpretata con finezza e grande energia da János Balázs. Un tratto narrativo aveva anche Fermata, partitura scritta durante l’isolamento pandemico e concepita come una sorta di resoconto di quel periodo, in cui la vita normale si fermava improvvisamente, conosceva momenti tragici, poi riprendeva in modo un po’ caotico. I quindici musicisti, che dovevano mantenere il “distanziamento” tra loro, intrecciavano una texture strumentale trasparente e policroma, giocata su transizioni finissime tra materiali completamente diversi, passando da zone sospese a frenetiche accelerazioni, con emergenze solistiche (che sembravano sempre delle citazioni) subito riassorbite, e con una costante propulsione ritmica, che sembrava in qualche modo dare ordine al caos.
Legato all’esperienza del Covid era anche il lavoro di Nina Šenk pezzo atmosferico con lunghe note tenute che formano strati, come un flusso che si dipanava lentamente, trasformandosi in continuazione, e sul quale materiali nuovi, come gli assoli del violino, venivano periodicamente “incollati”. Ne veniva un gioco sonoro fatto di ondate, rigonfiamenti, e continue variazioni, con improvvise zone ritmiche, nervose, percussive, che restituivano una sensazione di paura, di costante insicurezza: «Ora siamo nella nuova normalità – scrive la compositrice – i bruschi cambiamenti che sono venuti con l’epidemia sono ora una parte della vita quotidiana, hanno lentamente trasformato il nostro comportamento, influenzato sottilmente ogni individuo, una costante insicurezza, forse la paura è presente – e con tutto ciò stiamo cercando di andare verso il futuro». La qualità di questi lavori si è potuta apprezzare anche per l’ottima prova delle compagini orchestrali e dell’ensemble e per la direzione accuratissima e piena di verve, dimostrata anche nel Concerto per orchestra di Lutosławski, straordinario esempio di stilizzazione della musica folklorica in una trama ricca di contrappunti e fantasmagorie timbriche.