di Luca Chierici
Assente dal 2015, Juan Diego Flórez è tornato alla Scala in compagnia del fedele e bravissimo Vincenzo Scalera per riproporre uno dei suoi recital di lunghezza a priori indeterminabile. E si è trattato davvero di un programma che, iniziato quatto quatto con un aperitivo di arie antiche, si è poi inoltrato in un campo ben più attraente per il grande pubblico fino a sfociare in una serie quasi interminabile di bis.
Non ci dilunghiamo sul successo di pubblico – più che ovvio – che ha raggiunto livelli da stadio, né sulla disgregazione del concetto di recital, che ha portato ad esecuzioni corali di Guantanamera, applausi ritmati e cose simili che quasi non accadono più neanche nel peggiore dei concerti di capodanno. Che Juan Diego Flórez sia un grande cantante è dato per scontato da lungo tempo e non ci voleva certo questo applauditissimo concerto per rinnovare il plauso per una vocalità di primissimo livello e per un controllo tecnico-interpretativo ancora oggi formidabile. Si rimpiange un poco la freschezza del timbro del giovane Flórez, questo è vero, ma nessuno si può opporre al trascorrere del tempo e neanche il tenorino peruviano che si affacciava timidamente alle scene può pretendere di congelare l’aspetto e la voce di venticinque anni fa.
Un solo appunto ci sentiamo di fare, e ciò vale sia per lui che per altri artisti che si ostinano a ripetere ad infinitum il repertorio che li ha resi celebri. Il segreto per rimanere giovani è anche quello di rinnovarsi, di tentare strade nuove, di evitare i confronti con se stessi. Altrimenti se ne deve dedurre, nel caso di Flórez, che il proprio ruolo debba essere per forza ancorato ai cavalli di battaglia di un tempo. Il tenore ha ammaliato il pubblico con Gluck, Caccini, Carissimi, le arie da camera belliniane e si è giustamente spinto sul terreno della vocalità aperta, spontanea, generosa di Tosti, concedendo già sufficienti virtuosismi con il Donizetti del Don Sebastiano, il Verdi dei Foscari e il giovane Puccini delle Villi. Avrebbe dovuto fermarsi a quel punto? No, certo, perché qualsiasi recital di canto che si rispetti deve soddisfare ampiamente il rituale dei bis. Ma i grandi cantanti della precedente generazione riservavano i fuochi d’artificio finali appunto al repertorio operistico, che ben si guardavano di anticipare nell’impaginato ufficiale. Qui l’antipasto era già stato servito abbondantemente e Flórez ha pensato bene, all’inizio, di riproporre il siparietto della canzone popolare accompagnata da lui stesso splendidamente alla chitarra. Era proprio necessario proseguire con i “do” acuti della Figlia del Reggimento, con le gelide manine, persino con «La donna è mobile» (forse per far capire a Grigolo che si, anche lui è ancora in grado di cantarla?). Insomma, la richiesta di un successo di pubblico a tutti i costi puntando anche su un numero esagerato ed eterogeneo di encores (rispetto ai pur abbondanti standard di dieci anni fa) forse poteva essere evitata.