di Luca Chierici
A distanza di poco più di quattro anni la Scala ha recuperato due titoli desueti che ai loro tempi avevano comunque riscosso un notevole successo di pubblico. Il librettista è comune, quel Sem Benelli che ne La cena della beffe del 1909, musicata nel 1924 con notevole invenzione melodica da Umberto Giordano era poi addirittura approdata al successo cinematografico con Alessandro Blasetti, protagonista il fascinoso Amedeo Nazzari.
Il soggetto cruento di quel titolo era stato traslato alla Scala nel 2019 dal regista Mario Martone in un contesto di rivalità tra bande mafiose ma in ogni caso la qualità della musica di Giordano era stata più che sufficiente per riportare alla luce se non proprio un capolavoro, almeno un saggio di buon teatro musicale. Molto meno eccellente – almeno per i nostri tempi – è stata invece la riscoperta attuale di un secondo titolo, L’amore dei tre Re che Benelli termina nel 1913 e che viene posto in musica da Italo Montemezzi nel 1913. Opera calata in un dannunzianesimo spinto e commentata da una miscela di wagnerismo e debussismo piuttosto generici, con un sottofondo storico poco credibile che ruota attorno alla figura del vecchio Re Archibaldo, ossessionato dal tradimento che la nuora Fiora, sposata al di lui figlio ed erede Manfredo, compie con la complicità dell’amante Avito. Tre atti (il terzo brevissimo) durante i quali si vive una vera e propria ossessione amorosa quasi integralmente gestita da Archibaldo e una conclusione drammatica che vede prima la morte di Fiora, letteralmente sgozzata dal suocero, poi quella di Avito, che bacia le labbra della defunta prontamente cosparse di veleno da Archibaldo, e infine quella dello stesso Manfredo, anch’esso attratto irresistibilmente dal fatidico bacio.
Il fatto è che al libretto – già di per sé non un capolavoro – non corrisponde a nostro parere una musica di pari portata, nonostante il successo di pubblico attratto dalla direzione di Tullio Serafin e il sigillo di autenticità posto da una successiva presentazione americana di Toscanini abbiano contribuito non poco al valore storico del titolo, peraltro replicato solamente una trentina di volte in teatro fino all’anno 1953. Al successo del titolo contribuirono sicuramente anche le bacchette di De Sabata, Marinuzzi e Panizza (oltre allo stesso Toscanini, anche alla Scala nel 1926) e voci importanti quali quelle di Nazzareno De Angelis, Carlo Galeffi, Luisa Villani, Tancredi Pasero, Giuseppina Cobelli, Gilda Dalla Rizza. Ma già le prime reazioni della critica non facevano presagire i contorni di un capolavoro, al di là dei generici meriti di “senso drammatico e intensità di calore comunicativo”.
La messa in scena del regista Àlex Ollé della Fura dels Baus e dello scenografo Alfons Flores hanno semplificato forse troppo il disegno del castello di Archibaldo, gli spalti, la camera nuziale, utilizzando una infinita serie di catene che per quanto spettacolari e indicanti il groviglio di sentimenti che è proprio del soggetto contribuivano a rendere ancora più claustrofobica una scena che più scura non si poteva, l’unico elemento bianco essendo la veste della povera Fiora. Gli interpreti si sono spesi al meglio per ricavare una resa ottimale del titolo ma né il direttore Pinchas Steinberg né la un poco stridente Chiara Isotton (Fiora), né il burbero e vendicativo Evgeny Stavinsky (Archibaldo), né l’amante Avito (Giorgio Berrugi) hanno evocato memorabili emozioni. Meglio tutto sommato il tenore Giorgio Misseri nella parte di Flaminio, servitore di Archibaldo, e dello stesso Manfredo (Roman Burdenko). Cordiale il successo di pubblico.