di Gianluigi Mattietti
Edizione n.26 del Festival Messiaen, sulle alpi francesi, a La Grave, dove Olivier Messiaen viveva il suo legame mistico e creativo con la natura, dove amava ritirarsi per trarre ispirazione dal ghiacciaio della Meije (a 4000 metri di altezza), descritto dal compositore come un paesaggio terribile, puro, selvaggio e solenne. Nato con l’intento di presentare le opere del compositore, dei musicisti che lo hanno ispirato e del vasto stuolo dei suoi allievi, quest’anno a differenza di altre precedenti edizioni, incentrate su un tema o su un compositore che faceva da fil rouge, la rassegna procedeva zigzagando tra musiche e musicisti che sfioravano solo tangenzialmente il mondo di Messiaen, in un variopinto pot-pourri che spaziava da Gabriel Fauré a Helmut Lachenmann. Interessante l’omaggio reso a Yvonne Loriod (1924-2010), seconda moglie del compositore, in occasione del centenario della sua nascita. Pianista di grande talento, interprete della musica del marito ma anche altri autori del Novecento, da Bartók a Boulez, è ricordata anche come una grande didatta del pianoforte, che ha avuto tra i suoi allievi, al Conservatorio di Parigi, pianisti del calibro di Pierre-Laurent Aimard, Roger Muraro, Florent Boffard, Michel Béroff. In questo festival è stata svelata anche la sua attività di compositrice (grazie alle ricerche di due musicologi, Peter Azimov e Christopher Murray) concentrata in un periodo giovanile (dal 1943 al 1951): si tratta di pezzi per organici diversi, dalla musica da camera alla grande orchestra, chiaramente scritti sotto l’influenza di Messiaen, ma molto ingenui, pensati probabilmente come semplici esercizi compositivi. Nel loro concerto per due pianoforti, Florent Boffard e Roger Muraro, accanto a una splendida esecuzione delle Visions de l’Amen, ammirevole per le sonorità quasi organistiche, l’estrema dolcezza nel dipanare le linee melodiche unita a ritmi incalzanti e cascate di suoni dai bagliori metallici, hanno eseguito in prima mondiale i Trois pièces pour deux pianos della Loriod, composti proprio a La Grave nel 1951.
Seguendo l’esempio di Cage, che aveva frequentato la classe di Messiaen nel 1949, la Loriod ha utilizzato in questi pezzi il pianoforte preparato, ma mescolandolo con un pianismo quasi lisztiano in un mix piuttosto pasticciato, soprattutto nel denso e frenetico primo pezzo (La Martelée), che fondeva insieme, secondo le intenzioni della compositrice, un pianoforte “femminile” e uno “maschile”. Più definiti, ma sempre con il carattere di un compito scolastico, gli altri due pezzi: Gamelhang, dal carattere sospeso ed atmosferico, e La Murmurée, che giocava su temi di merli e usignoli con pattern secchi e ritmici, e una zona aerea come un impalpabile battito d’ali. Gli altri due pezzi della Loriod eseguiti dell’ensemble TM+ hanno confermato l’impressione deludente della sua musica: Le Trois Mélopées africaines per flauto, pianoforte e ondes Martenot (lo strumento suonato da sua sorella Jeanne), l’unico lavoro ad essere stato eseguito durante la sua vita (alla Société Nationale de Musique nel 1945), dalla scrittura ripetitiva, più monotona che incantatoria; e Grains de Cendre, otto melodie per soprano, pianoforte e ondes Martenot, composte nel 1946, quando era ancora allieva di Messiaen, concepite come una simulazione maldestra di Harawi.
Un altro omaggio è stato dedicato al compositore Bruno Ducol, scomparso l’11 gennaio all’età di 75 anni, dopo una lunga malattia. Ex allievo di Olivier Messiaen (ma al Conservatorio di Parigi ha studiato anche con Pierre Schaeffer e André Boucourechliev), devoto al maestro e al festival Messiaen, filosofo, musicologo, ha esplorato altre arti e altre culture musicali, attratto soprattutto dalla musica greca e dalla sua metrica. Il soprano Laura Holm (che ha anche interpretato con grande sensibilità alcuni estratti di Harawi, con una voce sempre timbrata e intensamente espressiva), l’attore Mathieu Marie e il pianista Jonas Vitaud hanno eseguito la prima mondiale di un lavoro lasciato incompiuto alla morte di Ducol, Entre regard et silence, hommage à Olivier Messiaen, basato su poesie di François Cheng (dal Livre du Vide médian). Un pezzo lungo e pretenzioso nel quale tutti e tre gli interpreti erano chiamati ad usare la voce, ma anche a intervenire usando piccoli oggetti o suonando nella cordiera del pianoforte. Più interessanti i due pezzi tratti dagli Études de rythme (Perpetuum mobile e Fulgurance) nei quali Ducol dimostrava la sua discendenza poetica da Messiaen, presentando i ritmi come personaggi teatrali con una scrittura virtuosistica e estroversa («Il ritmo è l’elemento primario sia della musica che della vita e ogni unità vitale possiede un ritmo originale che si integra in un’unità ritmica di ordine superiore»).
La pianista Aline Piboule ha impaginato due originali concerti: in uno alternando brani di Fauré con letture di testi sul legame amoroso del compositore con Marguerite Hasselmans (testi scritti e letti da Pascal Quignard), nell’altro brani di Messiaen con pezzi di Debussy, Paul Dukas, Maurice Emmanuel e di compositori che si sono ispirati a Messiaen come Odette Gartenlaub, Toru Takemitsu e Olivier Greif. Per fare compagnia a Yvonne Loriod, il soprano Clarisse Dalles e la pianista Anne le Bozec hanno interpretato lavori di tre compositrici francesi, vincitrici del Prix de Rome: Nadia Boulanger, Henriette Puig-Roget ed Elsa Barraine. In un bel concerto intitolato “Rhythm Labyrinth”, i percussionisti Florent Jodelet e Manjunath B.C. hanno invece messo a confronto musiche e strumenti della tradizione occidentale e indiana. Il percussionista indiano (noto anche per le sue performance con il ballerino e coreografo Akram Khan) ha offerto un saggio del konnakol, una virtuosistica tecnica di percussione vocale derivata dalla tradizione carnatica dell’India meridionale, con pattern reiterati e sbalorditive accelerazioni. Di grande impatto anche l’esecuzione di Kemit di François-Bernard Mâche, esempio di grande varietà ritmica ottenuta su uno strumento basico come il cajon; Carrefour Délicat di Jean-Pierre Drouet, concepito come una sorta di dialogo tra culture musicali; Rythmical Labyrinth di Thierry de Mey costruito con strati ritmici sovrapposti, sfruttando lo sfregamento delle mani sulla membrana dei timpani.
L’ensemble vocale Musicatreize ha poi offerto un’esecuzione nitida, geometrica ma allo stesso tempo molto intensa di due pezzi di André Jolivet, Cinq danses rituelles (1940) e Epithalame (1953), cogliendo molto bene lo spirito arcaico e primitivistico di questa musica. Nel concerto era presenta anche un nuovo lavoro per coro e pianoforte di Philippe Schoeller intitolato Hercule, L’Hydre de Lerne, ispirato alle dodici fatiche di Ercole: una musica che ruotava intorno all’idea del combattimento tra le dodici voci e le violenti figurazioni del pianoforte (suonato da Marie-Josèphe Jude), simbolo per il compositore di potenza, di energia indomabile, con dense trame e un mix di parlato, sussurrato, cantato, che risultavano però informi e privi di tensione. Le cose più interessanti sono emerse invece in un concerto del Quatuor Béla e dell’ottimo ensemble vocale Spirito, che ha presentato un programma dove celebri lavori di Fauré (come Le Cantique de Jean Racine) e di Messiaen (O Sacrum Convivium, eseguito con vividi crescendo e una lettura più fisica che eterea) si intrecciavano con I had a dream per coro e elettronica di Zad Moultaka (che mescolava il famoso discorso di Martin Luther King con testimonianze delle vittime dell’uragano Katrina a New Orleans nel 2005) e con alcuni pezzi di quattro giovani, promettenti compositori, eseguiti in prima mondiale: Dans la sonorité scintillante di Max Eidinoff, lavoro per quartetto d’archi ben sviluppato, caratterizzato dalla ricerca di tessiture acute, da una movimentata scrittura di armonici che sembravano evocare cori celesti; il bellissimo Rien après, rien avant di Anthony Mondon, per coro a cappella, dove armonie dense e dissonanti si fondevano con il parlato e il sussurrato in un sensuale gioco di trascoloramenti; Gerçure Photon di Guilhem Meier, pure per coro a cappella, dove si alternavano in maniera più caotica grida, melodie spiegate, brusii, ruggiti, soffi; Maskoun / Majnoun di Nadim Tarabay, per coro e quartetto d’archi, con le trame del quartetto, piene di glissati, che si innestavano sugli slittamenti armonici della polifonia vocale in un intreccio dal carattere molto drammatico, che svaporava alla fine in un grande sospiro corale.