di Gianluigi Mattietti
In una delle più belle vallate della Svizzera, nel Canton Vallese, c’è un villaggio pieno di musica, con un festival articolato in varie serie (musica da camera, pianoforte, musica barocca, jazz) che punteggiano tutta l’estate, da fine giugno all’inizio di settembre. Ernen, che è stato per secoli uno snodo importante lungo la strada per i passi della Furka e del Grimsel, ha conservato intatto il prestigio del vecchio capoluogo della vallata, ma anche la sua naturale bellezza, data dalla collocazione su un altopiano naturale, sopra la valle di Fiesch, dai giardini e frutteti che circondano l’insediamento, dal nucleo storico con edifici costruiti nello stile tipico della regione. Il festival ha una storia musicale lunga e ben radicata, che risale a 50 anni fa, quando il pianista György Sebők (1922-1999) trovò lì il luogo ideale per organizzare le sue masterclass di pianoforte (a partire dal 1974) diventando una specie di genius loci, tanto che nel 1986 fu nominato cittadino onorario. Nel 1987 è stata organizzata la prima edizione del festival, l’anno successivo è stata fondata l’associazione “Musikdorf Ernen”, trasformata poi in fondazione, e da allora, anno dopo anno, la piccola rassegna musicale si è ampliata, diventando un grande appuntamento musicale dell’estate, con programmi accuratamente impaginati e mai banali. Ad animare la rassegna è un gruppo di giovani musicisti di grane talento, provenienti da paesi diversi (Finlandia, Spagna, Polonia, Svizzera, Venezuela, Israele, Svezia, Inghilterra, Germania), chiamati a raccolta da Alasdair Beatson, pianista scozzese e direttore artistico del festival. Musicisti mossi da una grande passione, pronti a cimentarsi con pagine rare, con musiche nuove, a formare organici diversi a seconda delle necessità, dal duo all’orchestra da camera. Queste presentazioni della “filosofia” dei musicisti di Ernen sembrerebbero un esercizio di retorica, un messaggio di tipo promozionale, ma poi ascoltandoli suonare si capisce che è vero. Sono musicisti affiatati, che trasmetto gioia, che suonano in piedi, quasi danzano al ritmo della musica, cogliendo lo spirito profondo di ogni partitura che affrontano: «il bello è che qui c’è tempo per fare tante prove – racconta il violoncellista Francesco Dillon – non come in molti festival italiani, dove si fa una prova e via… Anche perché qui non suoniamo il solito repertorio». Per questo, girando per le stradine di Ernen, si sente musica ad ogni ora del giorno e le case di legno sembrano magiche scatole che improvvisamente cominciano a suonare (con le musiche dei vari gruppi in prova) incantando i vacanzieri di passaggio.
Alcuni concerti si tengono nella piazza centrale del villaggio, dove sorge la «Tellenhaus» (che custodisce una delle più antiche raffigurazioni dell’eroe svizzero Guglielmo Tell). Lì ad esempio è stato eseguito un concerto dal sapore italiano con la Serenata op.46 di Alfredo Casella e la Italienische Serenade di Hugo Wolf. Ma la maggior parte dei concerti è ospitata nella chiesa tardo-gotica di San Giorgio, eretta nel Cinquecento in una posizione che domina l’intera vallata. Si sono ascoltate pagine classiche, cameristiche o per orchestra da camera, come il Quintetto KV 515 di Mozart, interpretato con estrema nitidezza nei dialoghi strumentali, la Sinfonia n.10 di Mendelssohn, la Holberg Suite di Grieg, eseguita con slancio danzante e ampio lirismo. Ma i programmi comprendevano soprattutto musiche novecentesche di più rara esecuzione (di solito bandite dai festival estivi in Italia). Paolo Giacometti e Alasdair Beatson hanno interpretato con grande virtuosismo la suite dall’Uccello di fuoco di Stravinskij (nella trascrizione per pianoforte a quattro mani di Philip Moore), con una scrittura molto orchestrale che richiedeva un continuo intreccio, quasi “ginnico”, di mani e di braccia. Le violiste Lilli Maijala e Alinka Rowe hanno affrontato il compassato, ma molto impegnativo, Agnus Dei di Horațiu Rădulescu, basato su un rigoroso gioco combinatorio, ispirato alla Colonna dell’infinito di Brâncuși. È poi stata eseguita la suite per sei strumenti dalla Revue de Cuisine di Martinů, appuntita e leggera, con le sue marce e danze, ritmi di tango e di charleston, poliritmica e ricca di vertiginose modulazioni, vivacizzata anche dalle brevi incursioni narrative del clarinettista (Matthew Hunt) e della fagottista (Valeria Curti), e dall’esibizione dei vari oggetti di cucina (la pentola, il coperchio, la frusta, il canovaccio, la scopa) protagonisti del fantasioso intrigo amoroso del balletto. Alcune pagine rare e “sfiziose” si sono ascoltate anche nel concerto con l’orchestra da camera: Young Apollo di Britten, per pianoforte, quartetto d’archi e orchestra da camera, «una musica infuocata e brillante», come la definì il compositore, dalla concezione molto moderna anche se si tratta di un pezzo giovanile, eseguita con grande verve e dinamismo; Sunrise Serenade di Aulis Sallinen, pezzo malinconico ma pieno di slanci, che si dipanava intorno all’ampio melodizzare della tromba solista (di Lennard Czakaj), con gli arpeggi gocciolanti del pianoforte che risuonavano come un’eco raggelata; le Cinque Danze Greche di Nikos Skalkottas, con i loro temi liberamente ispirati a canti popolari, restituiti in tutto il loro stile ardente, come un caleidoscopio di voci e di colori.
A Ernen c’è sempre anche un compositore in residenza, secondo la migliore prassi ormai affermatasi in tutte le rassegne che contano. Quest’anno era Christian Mason, presente con diversi suoi lavori che si innestavano con grande naturalezza nei programmi dei vari concerti. Interessato a strumenti insoliti come l’armonica a bocca, la sega musicale, il theremin (del quale ha dato anche un saggio pubblico a Ernen), attratto dalla musica di culture musicali lontane, il quarantenne compositore inglese, allievo di Julian Anderson e George Benjamin, ha composto un ciclo di opere per quartetto d’archi ispirato a diverse tradizioni del canto di gola (ad esempio il Sardinian Songbook si basa sul canto dei Tenores di Bitti). A Ernen è stato eseguito il Tuvan Songbook (2016), presentato in una nuova versione per orchestra d’archi, nato dalla fascinazione per il canto difonico tuvano (ai confini con la Mongolia) che Mason aveva scoperto seguendo i seminari di Michael Ormiston. Questo pezzo creava una simbiosi sorprendente tra antiche tradizioni e scrittura contemporanea, con i musicisti che intervenivano anche con frammenti cantati e urla ritmate nei quattro movimenti: nel primo (Dyngylday) si mescolavano pulsazioni pizzicate con scale discendenti e inflessioni microtonali, quasi parlanti; nel secondo (Eki Attar) ritmi galoppanti si spingevano fino a una grande accelerazione finale; nel terzo (Kuda Yry), ispirato a una canzone nuziale, una prima sezione leggera e staccata era seguita da una sezione lenta, sospesa, sostenuta da una nota bordone; nel quarto (Ezir-Kara) delle frasi modali, suonate e cantate dai musicisti, si distendevano su una fitta rete di pulsazioni e di accenti.
Mason ha spesso omaggiato altri compositori ispirandosi ad alcuni pezzi celebri e riprendendone talvolta l’organico. A Ernen la bella esecuzione del Forellenquintett di Schubert è stata seguita da Shadowy Fish. Hommage à Schubert, che il compositore inglese ha destinato allo stesso quintetto strumentale, memore del grande amore che ha sempre avuto per quel brano schubertiano: «Era uno dei miei pezzi preferiti da bambino, e lo amo ancora […] Naturalmente, questo era dovuto in parte alla meravigliosa musica, che è così leggera e allegra in superficie, ma che ha anche dei risvolti oscuri in profondità emotive. Ma mi piaceva anche l’immagine di una trota sulla copertina del disco: che bella creatura! Quando vivevo a Villa Concordia a Bamberg, durante le mie passeggiate quotidiane lungo il Regnitz, osservavo le trote che nuotavano tranquillamente nell’acqua bassa […] Ma se percepivano la mia ombra, scappavano in una frazione di secondo! Se hai l’opportunità di osservare da vicino le trote fario, vedrai che sono ricoperte da innumerevoli macchie marroni e rosse di varie dimensioni: suppongo si tratti di mimetizzazione. Ora questi motivi sembrano fondersi nella mia testa con i colori mutevoli degli arpeggi spettrali che scorrono in questo brano». In tre movimenti (Mysterious, hypnotic, entrancing; Slow, with a heavy heart; Delicate, mysterious), ispirati alle prime tre strofe di una poesia di Pablo Neruda, Giochi ogni giorno con la luce dell’universo, era dunque un pezzo dal carattere acquatico, fatto onde increspate, con glissati simultanei, suoni nella cordiera del pianoforte, linee che sembravano sprofondare e poi riaffiorare, processi viscosi, sguscianti, guizzi improvvisi, frammenti melodici che scorrevano attraverso texture velate e scintillanti, intrecciandosi in maniera sempre imprevedibile, ma come se ci fosse una voce nascosta nella trama strumentale.
In Shadowy Fish il violino e la viola cominciavano a suonare da dietro l’altare ed entravano in scena suonando. Lo spazio e il movimento dei musicisti sulla scena sono del resto un pallino di Christian Mason, che tiene sempre conto delle prospettive di ascolto e per questo ha spesso ridefinito il concetto di spazio dell’esecuzione come parte integrante della composizione. Lo dimostrano pezzi come Zwischen den Sternen (2019) ispirato agli spazi interstellari, o Invisible Threads (2023), ispirato invece alle ramificazioni sotterranee di funghi e alberi. Una precisa regia nella spazializzazione dell’esecuzione musicale caratterizzava anche Figures in a landscape (awaiting eternity), il pezzo più atteso di Mason, scritto su commissione del festival. Pensato come un omaggio al Quatuor pour la fin du temps di Messiaen, del quale riprendeva l’organico, e ispirato a una poesia di T. S. Eliot, Burnt Norton, giocava su prospettive di spazio e di tempo che cambiavano continuamente, spiazzando gli ascoltatori. Oltre al quartetto, che suonava sul presbiterio, una tromba e l’organo suonavano dalla balconata, altri archi dietro l’altare. Il pezzo era poi introdotto da una processione di campanacci che partiva dall’altare, procedeva lungo i lati della chiesa e proseguiva uscendo all’esterno. Il cuore dell’ampia composizione, della durata di circa trenta minuti, era riservato al quartetto che disegnava una trama fatta di figure veloci e virtuosistiche, di venature modali, di accelerazioni, di processi di accumulo che partivano da cellule minime (poche note del pianoforte, una lenta melodia del clarinetto) per poi ripiegare in una dimensione calma e meditativa, punteggiata da figure del clarinetto che sembravano cinguettii. Alla fine, il clarinettista e il pianista si allontanavano suonando delle armoniche a bocca, mentre ripartiva la processione coi campanacci, mescolandosi con i cluster dell’organo e avvolgendo il pezzo in un’atmosfera rituale e misteriosa.