di Francesco Lora
L’anno di Pesaro capitale italiana della cultura ha premiato il Rossini Opera Festival con un cartellone esteso su ben 17 giorni (7-23 agosto) e più ricco del solito in fatto di titoli e appuntamenti: due nuovi allestimenti per Bianca e Falliero ed Ermione (versante serio), due meritate riprese per L’equivoco stravagante e Il barbiere di Siviglia (versante buffo), due esecuzioni concomitanti del Viaggio a Reims (esordienti dell’Accademia rossiniana versus specialisti già in piena carriera), cinque recitals di canto, due concerti lirico-sinfonici, uno cameristico e l’esecuzione di un paio di rarità quali l’adolescenziale Messa “di Ravenna” e la grandiosa cantata Il vero omaggio. In modo reciproco, il ROF ha premiato la vita culturale di Pesaro col più alto numero di spettatori attirati in 45 anni di attività, con un incasso milionario e con la sospirata riapertura del Palafestival rimesso a nuovo all’insegna di Auditorium Scavolini (mentre già si vagheggia il ritorno all’agibilità dell’Auditorium Pedrotti: ciò significherebbe il fattibile e quasi completo rientro in città della rassegna, che l’anno scorso non aveva potuto contare nemmeno sul Teatro Rossini, temporaneamente inagibile, dirottando tutte le principali produzioni operistiche sulla Vitrifrigo Arena). Sono già annunciati i titoli per il 2025: Zelmira, che manca dal 2009, con la direzione di Giacomo Sagripanti e la regìa (nuova) di Calixto Bieito (o di quel che ne resta, dopo il penoso fiasco dell’autunno scorso al Teatro di San Carlo di Napoli e proprio in un’opera rossiniana, Maometto II); L’italiana in Algeri, che manca dal 2013, con la direzione di Dmitry Korchak (cantante che si diletta del podio: ma è il caso di riservare proprio a lui questo incarico di rilievo?) e la regìa (anch’essa nuova) di Rosetta Cucchi; infine Il turco in Italia, che manca dal 2016, con la direzione di Diego Ceretta e la regìa (già collaudata) di Davide Livermore. Se si passa dall’ufficiale all’ufficioso, v’è anche chi scommette sulle voci di Pretty Yende, Jack Swanson ed Enea Scala per il primo titolo, su quelle di Daniela Barcellona, Paolo Bordogna e Pietro Spagnoli per il secondo e – calo di fantasia – soltanto su quella di Hasmik Torosyan per il terzo. Sarà vero? Chissà. Così come sarebbe bello se a dirigere l’altrettanto annunciata Messa per Rossini – il lavoro a 26 mani, capeggiato da Verdi, in suffragio di Gioachino – fosse una tra le due bacchette di punta del ROF 2024, in particolare, e dell’esegesi rossiniana, in generale: Roberto Abbado o Michele Mariotti.
BIANCA E FALLIERO
Quale gran signore del podio sia Abbado, e quanto prezioso sia oggi il suo lavoro, basta a dimostrarlo un dettaglio di classe: nelle quattro recite di Bianca e Falliero allo Scavolini, dal 7 al 19 agosto, i recitativi secchi sono stati sostenuti con un basso continuo formato non dal solo fortepiano o clavicembalo, come già Jean-Pierre Ponnelle trovava inverosimile e come oggi s’è ripreso a fare con disgraziata pigrizia, ma anche dal violoncello e dal contrabbasso, come gli studi filologici di 30-40 anni fa – Adriano Cavicchi in testa – spiegavano ai pionieri della renaissance rossiniana. Nessuna sorpresa v’è poi al cospetto di un discorso strumentale condotto in perfetto equilibrio tra duttilità di agogica, brillantezza di fonica e incisività di fraseggio: insieme con l’Orchestra sinfonica nazionale della Rai, Abbado dà pieno conto di questo Rossini “apollineo” destinato alla Milano del 1819. Spalle meno forti ha lo spettacolo con regìa di Jean-Louis Grinda e scene e costumi di Rudy Sabounghi: in esso è istituito non altro sottotesto che quello di una decrepita, arcigna, muta e inutilissima madre/nonna della protagonista, mentre la trasposizione al Novecento è così persuasa di sé da recuperare senza sosta l’originale iconografia del Seicento veneziano. Trionfatrice sul fronte canoro è Jessica Pratt, la quale, nella parte di Bianca, è l’unica voce del Festival in grado di consolare, per idilliaco virtuosismo, pudico porgere, piglio impavido ed emissione cristallina, i sacrosanti vedovi di Mariella Devia (anzi, non è l’unica voce: il 15 e il 17 agosto, nel Vero omaggio e nel recital al Teatro Rossini, Sara Blanch ha dato lezione di stile, eleganza, generosità e comunicativa). Le pretese della scrittura rossiniana sono del resto attestate, per via negativa, nel Falliero di Aya Wakizono, povero di volume, smalto e – quel ch’è peggio – affatto inerte nell’accento: automatico diviene allora il rimpianto per il mancato incarico a Raffaella Lupinacci, già favoloso Arsace (stessa tessitura, piuttosto acuta) nell’Aureliano in Palmira del ROF 2023. Compiuti i 40 anni, Korchak è entrato in una nuova primavera vocale, ma a illustrarlo di recente è stato più il Massenet di Werther al Filarmonico di Verona che il Rossini di Guillaume Tell alla Scala di Milano: nondimeno, il suo Contareno risulta eccellente, e lo è sia per proprietà tecnica (sempre inesorabile), sia per freddezza espressiva (qui appropriata). Da seguire, dopo l’ascolto del suo solido Capellio, gli sviluppi di carriera di Giorgi Manoshvili.
L’EQUIVOCO STRAVAGANTE
Nell’edizione del 2019, il ROF s’era coperto di gloria commissionando a Moshe Leiser e Patrice Caurier, per L’equivoco stravagante di un Rossini diciannovenne, una regìa d’opera buffa – anzi buffissima e genialmente sboccacciata – degna dell’Italiana, del Barbiere, della Cenerentola e dell’Occasione fa il ladro di Ponnelle. Riprendere oggi quell’allestimento è oggi tanto doveroso quanto responsabilizzante: si tratta di far rivivere una lettura cucita addosso ai suoi primi, carismatici interpreti, con in più l’incognita di trasferirsi – com’è avvenuto nelle quattro recite dell’8-21 agosto – dall’ampia Vitrifrigo Arena al raccolto Teatro Rossini. In una compagnia di canto rinnovata per intero, vince chi riesce a entrare nello spirito dell’opera e della regìa dando luogo a una declinazione personale anziché scimmiottando le virtù di chi l’ha preceduto. Nicola Alaimo, così, s’impone, conferma e trasfigura come colossale macchina comica vivente: il purista potrà imputargli a ragione una lista di mende canore, ma nulla sulla straripante caratterizzazione del suo Gamberotto. Nella parte dell’amoroso Ermanno, Pietro Adaìni agisce con corretta simpatia, ed è già molto, se si considera l’isolato disastro commesso dal collega di cinque anni fa. Decisivo è il ruolo dei comprimari Rosalia e Frontino, l’una efficace in Patricia Calvache, l’altro scoppiettante in Matteo Macchioni. Il difficile arriva con le parti della calligrafica Ernestina e del vanaglorioso Buralicchio: Teresa Iervolino e Davide Luciano ne avevano cavato due personali capolavori di estro attoriale, giocando all’infinito con le parole della loro madrelingua e sciorinando insieme l’autoironia che ha senso solo nei grandi. A raccogliere tale testimone sarebbero serviti una Barcellona in vena di scherzare sugli en travesti e un Giorgio Caoduro armato di amabilità e semicrome (i protagonisti, peraltro, di eloquenti e osannati concerti, nel Teatro Rossini, il 20 e 21 agosto). Cinque anni dopo, Maria Barakova e Carles Pachón, pur impegnati, ereditano invece costumi troppo larghi per il loro incerto possesso dell’italiano e il loro ordinario patrimonio vocale: tentano di ripetere pedissequamente la lezione dei predecessori. Tale lacuna spiace anche perché sul podio v’è Michele Spotti, uno tra i più dotati, disponibili e sagaci concertatori italiani, il cui lavoro è però azzoppato inoltre dalla scarsezza tecnica dell’orchestra affidatagli, la Filarmonica Gioachino Rossini, morchiosa qui come L’equivoco stravagante mai ammette.
ERMIONE
Gustav Kuhn e Alberto Zedda, Hugo De Ana e Graham Vick, Anna Caterina Antonacci e Marilyn Horne, Rockwell Blake e Chris Merritt: guai a sottovalutare la storia esecutiva di Ermione, capolavoro incompreso – anch’esso del 1819, ma “dionisiaco” e destinato a Napoli – che dopo 150 anni di oblio ha fatto furore e attratto un Olimpo di artisti. Le interpretazioni memorabili non gli sono mancate, e sarebbe allora irrispettoso gridare oggi al miracolo. Le quattro recite del 9-20 agosto nella Vitrifrigo Arena, però, rivelano l’opera sotto una luce inedita, la quale non è di filologica avanguardia, ma era finora mancata, lasciando un buco esegetico. Nella concertazione di Mariotti, s’intende dire, è bandito ogni automatismo, istintivo invece, viste la regolarità delle forme e la propulsione del ritmo, nel grosso delle letture rossiniane: ogni frase porta il proprio tempo, colore e volontà, con un’inesaustibile lucidità di pensiero, che conferisce a ogni passo un’avvincente direzione agogica e la disponibilità a osare, mettere e mettersi in discussione. Magnifica, va da sé, l’Orchestra della Rai, e flebile, al confronto, come già in Bianca e Falliero, il Coro del Teatro Ventidio Basso. In provvidenziale sinergia procede la lettura registica di Johannes Erath, cui corrispondono scene di Heike Scheele, costumi di Jorge Jara e luci di Fabio Antoci, a definire, con recitazione di scioltezza cinematografica, un mondo cortigiano nero, lunare e perverso, alla maniera di quello nella Salome di Strauss. Incomparabili sono la parte protagonistica e quella di Pirro nella resa scenica, recitativa e virtuosistica di Anastasia Bartoli ed Enea Scala: in loro rivive – e fa trasalire – l’illimitata disponibilità alla follia senza rete che, negli scorsi anni Ottanta, entusiasmò a riscoprire Rossini. Arriva in ritardo, invece, il debutto di Juan Diego Flórez come Oreste: la vocalizzazione è laboriosa e gli acuti suonano oggi pesanti, spenti e fibrosi anziché scontati, agili e luminosi. Duole dunque l’appuntamento da lui perso con l’Ermione pesarese del 2008 (Oreste fu Antonino Siragusa, ottimo ancora a Napoli nel 2019); duole l’irreversibilità di una carriera ormai dedita a Verdi, Massenet e Puccini; duole infine il rossinicidio commesso nel plateale Si bemolle acuto che blocca il travolgente finale dell’opera e s’aggiunge alle battute tagliate nella cabaletta del precedente duetto. Brava senza essere diva l’Andromaca di Victoria Yarovaya (ma la fonte, di Racine, sarebbe appunto Andromaque).
IL BARBIERE DI SIVIGLIA
L’opera rossiniana meno amata dai rossinomani è Il barbiere di Siviglia: massacrato nel testo dalla tradizione, onnipresente in allestimenti sciatti, prevedibile là ove L’italiana in Algeri e La Cenerentola ammiccano con ben altra sottigliezza e titoli più rari recano una brillantezza non inferiore. A una tavola rotonda musicologica bolognese del 2016, che celebrava il bicentenario di questa prima opera mai uscita dal repertorio, memorabile fu la voce fuori dal coro di Mario Fabbri: che a fare la fortuna popolare del Barbiere sia stata non la sua eccellenza, ma la sua mediocrità? Insomma: quando nel 2018 il ROF mise in cartellone Il barbiere, i rossinomani prima bofonchiarono di santa ragione, poi furono risarciti da un allestimento, con regìa, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi, il quale faceva piazza pulita d’incrostazioni, buffonate, scorciatoie e scorciature, per restituire invece – non era mai accaduto prima, nemmeno con Claudio Abbado – la deliziosa, calma commedia illuministica, risolta tutta nella parola e nella musica, senza cedere all’extratestualità farsesca. Va da sé che il versante musicale – ottimo nei tre quarti maschili e buono in quello femminile della compagnia di canto, più una tra le più raffinate concertazioni di Yves Abel – era stato assemblato in modo tale da preludere a tanto risultato. Sulla ripresa nella Vitrifrigo Arena, dal 10 al 22 agosto, ha invece preso a depositarsi polvere. Ne reca la direzione di Lorenzo Passarini, la quale è anzitutto metronomica, forsennata e precipitosa, consistendo così – esterno graffio senza analisi profonda – nell’esatto contrario del lavoro teatrale di Pizzi; ciò avviene anche a dispetto dell’Orchestra sinfonica “G. Rossini” (compagine diversa dalla Filarmonica) e del Coro del Teatro della Fortuna di Fano (lo stesso ascoltato nell’Equivoco), cui non mancherebbero garbo e simpatia. Troppe smorfie, mossette e smancerie, poi, nella Rosina di Maria Kataeva e nel Figaro di Andrzej Filonczyk, come se essi stessero agendo per un pubblico che non conosce l’italiano e dev’essere fatto ridere, fuori luogo, a ogni costo. Quanto al Conte d’Almaviva, Swanson non è forse il nuovo Blake, ma ha spalle forti e in futuro caverà parecchie castagne dal fuoco ai casting managers rossiniani. Il vero guaio dei predetti cantanti è quello di trovarsi al fianco di Carlo Lepore, come Bartolo, e Michele Pertusi, come Basilio: due che l’unità di misura artistica non solo la cavalcano, ma impareggiabilmente la determinano.
IL VIAGGIO A REIMS
Qualche commozione aggiuntiva la prova chi era presente già nel 2001: Il viaggio a Reims con la regìa e le scene di Emilio Sagi, più i costumi di Pepa Ojanguren, è divenuto da allora l’irrinunciabile base dell’ultimo saggio pesarese per i giovani cantanti usciti dall’Accademia rossiniana, e quest’anno è tornato nello “scavolinato” Palafestival, ove 23 anni or sono aveva mosso i primi passi. L’annata corrente sembra però avara di talenti: tra gli internazionali 20 cantanti presentati nelle recite del 16 e 19 agosto, chi scrive è rimasto impressionato dalla sola Chiara Boccabella (nomen omen), capace di una Corinna maliosa per emissione, timbro e fraseggio. Altra cosa è il Viaggio a Reims dei seniores, eseguito in concerto il 23 agosto, nell’Auditorium, per siglare l’edizione del Festival e commemorare i 40 anni dall’immortale prima ripresa, al ROF, con la direzione di Abbado zio. È tuttavia cattiva l’idea di ancorarsi a quel modello irraggiungibile anche nei difetti che il tempo ha messo a nudo: i tagli interni a entrambe le arie di Corinna sono implausibili oggi più che allora, il ricostruito coro «L’allegria è un sommo bene» non può essere attualmente ignorato, né a Diego Matheuz è sufficiente aver avuto come mentore il divo Claudio per lasciare il segno con la pur eccellente Orchestra della Rai e il pur numeroso coro ascolano. La compagnia di canto è un florilegio che intriga. Vasilisa Berzhanskaya, mezzosoprano, aggiusta con sfarzo il pregiudizio intorno alla parte di Corinna, composta per Giuditta Pasta, all’epoca quasi un contralto, ma dal 1984 sempre affidata a soprani (eppure Abbado l’aveva proposta anche a Teresa Berganza). La Barakova, come Marchesa Melibea, finisce così nell’ombra, mentre la Pratt, come Contessa di Folleville, spadroneggia a furia di sopracuti, e Karine Deshayes, come Madama Cortese, lascia dubbi sul caparbio investimento nella poco congeniale vocalità rossiniana. Swanson, Korchak e Alaimo, come Cavalier Belfiore, Conte di Libenskof e Barone di Trombonok, riattestano le loro floride qualità, mentre Erwin Schrott, come Don Profondo, eccede nel semplificarsi la parte. Si fa largo anche Vito Priante, come Don Alvaro, e merita una menzione speciale il giovane Michael Mofidian come Lord Sidney: incappato in una serata ai limiti dell’indisposizione, rimane nondimeno un basso sopraffino per tecnica, eleganza e una qualità timbrica che, unita all’alterigia del porgere, ricorda quella sovrana di Samuel Ramey.
I FALSI MONETARI
Una perplessità è passata di bocca in bocca tra gli aficionados del ROF: lungo un programma più ricco del solito, con ben dieci direttori d’orchestra scritturati e tra essi almeno cinque non di grido, s’è persa traccia di quell’Enrico Lombardi che l’anno scorso aveva salvato tre recite su quattro di Adelaide di Borgogna, studiandone da zero la partitura in poche ore e dando una lettura di pregiata alternativa a quella del concertatore titolare (infortunato). Perplessità, s’è detto, giacché le convenienze teatrali guadagnano in dignità se sanno mostrarsi capaci di gratitudine. Di quell’Enrico Lombardi s’è invece prontamente e saggiamente interessato il Festival “Il belcanto ritrovato”, la rassegna di rarità operistiche che ha luogo anch’essa nella provincia di Pesaro-Urbino e inizia non appena chiusi i lavori del ROF: non v’è rischio di pestarsi i piedi tra istituzioni concomitanti, e anzi v’è l’occasione, per chi rimane, d’indagare più a fondo da dove sia saltato fuori Rossini, con chi si sia accompagnato e come abbia esercitato influenza. Ebbene: il 24 agosto, nel Teatro della Fortuna di Fano, è stata riscoperta un’opera buffa di Lauro Rossi, I falsi monetari, fortunato rifacimento, del 1844, di un’altrettanto fortunata Casa disabitata, composta dieci anni prima per la Scala. Colpiscono, nella concertazione di Lombardi, l’ingegneristico possesso tecnico della ponderosa partitura, l’attenta plasticità dell’accompagnamento al canto nonché la narrativa energica, brillante, smaliziata, che farebbe comodo anche a tante esecuzioni correnti di Rossini, Donizetti, Bellini e Verdi: magari, al ROF, fino a due giorni prima, la Sinfonica Rossini avesse avuto ragione di presentarsi altrettanto rifinita, coinvolta e motivata! Fa paura scoprire che la regìa tocca a una femminista d’assalto, Cristina Pietrantonio, membro di un trio chiamato Vulvaria, ma si resta poi quasi delusi davanti a una drammaturgia così mite e tradizionale da sembrare figlia del patriarcato. Eccellente è il lavoro di squadra della compagnia di canto, ma anche i meriti individuali di Antonio Mandrillo – già Pilade in Ermione – come languente Don Raimondo Lopez, di Matteo Mancini come Don Isidoro (un baritono che sa squillare con impeto tenorile), di Tamar Ugrekhelidze come Annetta (linea di canto alterna ma personaggio spigliato), di Giuseppe Toia come Don Eutichio (finalmente un vero buffo all’italiana, per giunta dei più arguti) e Vittoriana De Amicis come Sinforosa (virtuosa puntuale, attrice spassosa).