di Monika Prusak
Non rimane molto del mondo fiabesco e orientaleggiante di Puccini nella nuova regia di Alessandro Talevi, che per la sua Turandot sceglie un’ambientazione ricca di spunti, ma allo stesso tempo poco definita ed eccessivamente statica.
La trattazione generica dei luoghi e dei personaggi dell’opera non raggiunge l’obiettivo di universalità, rendendo piuttosto confusa e incoerente l’idea che ci sta dietro. Le scene di Anna Bonomelli rimangono invariate per tutta la durata dello spettacolo, lasciando spazio alle sole variazioni di luci create da Marco Giusti, che attraverso l’uso di immagini in movimento riesce a creare alcuni momenti interessanti e atmosfere più coinvolgenti. Nelle scenografie non si apprezza la scelta dei colori e dei materiali: dai pannelli rappresentanti la natura al mausoleo dell’imperatore che non sono ben accostati tra di loro. È interessante, invece, l’idea di trasformare il coro nell’esercito di terracotta; idea che, tuttavia, rimane scollegata dall’azione dell’opera. Risulta discutibile, infine, la scelta dei costumi, non tanto per la qualità e l’aspetto estetico, ma per la comprensione dell’idea registica: piacciono e divertono, ad esempio, le giacche colorate con rimando al mondo pop di Ping, Pang, Pong, ma sfugge il loro inserimento nel contesto generale. Curiosa la resa delle comparse, dai servi del boia alle ancelle, ma anche in questo caso la diversa provenienza dalle idee non fa cogliere il filo conduttore che avrebbe collegato tutti i vari elementi. È ben riuscita l’idea di Talevi di organizzare diversi livelli di azione comunicanti tra di loro: la scalinata del mausoleo con la luce celeste, che fa apparire Turandot e nel finale accoglierà Liù nelle vesti di Imperatrice; più giù la passerella per le comparse impegnate a sorvegliare il coro di terracotta incastrato in una spessa costruzione rappresentante il muro, e infine la parte frontale del proscenio per lo svolgimento dei dialoghi tra i protagonisti.
Tra gli interpreti in scena spicca Liù di Juliana Grigoryan: il soprano armeno dal timbro velato e l’intonazione impeccabile incanta con una voce pucciniana per eccellenza, soprattutto nei piano mozzafiato, lasciando gli spettatori in apnea per tutta la durata di Tu, che di gel sei cinta del terzo atto, conclusa con un tumultuoso applauso all’istante. L’elegante e distinta Turandot di Ewa Płonka presenta una voce suadente, ma una pronuncia poco chiara. Ciò nonostante, il soprano polacco rende il personaggio credibile dal punto di vista scenico con la graduale resa dell’orgoglio reale in funzione di un amore inaspettato e incontrollabile. Non convince Calaf di Martin Muehle, chiamato in sostituzione di Yusif Eyvasov, spesso impreciso per intonazione e resistenza, di conseguenza poco credibile nella romanza Nessun dorma che rappresenta il punto focale dell’intera opera. Apprezzabili i restanti personaggi maschili, Timur di Giorgi Manoshvili, Mandarino di Luciano Roberti e Altoum di Cristiano Olivieri. Divertenti e coinvolgenti i tre ministri Ping di Alessio Arduini, Pong di Matteo Mezzaro e Pang di Blagoj Nacoski, del quale si apprezzano le particolari qualità vocali e timbriche. Ben assortite anche le due ancelle, Gabriella Baresi e Lorena Scarlata.
La direzione eccellente di Carlo Goldstein merita un commento a parte per la straordinaria bravura nel costruire l’intera partitura, le dinamiche e i timbri, fondamentali per la buona resa di Puccini, il tutto svolto con una minuziosa attenzione ai tempi e con una impeccabile guida dei cantanti e del coro. Goldstein si spinge oltre nel cogliere le numerose sfumature pucciniane, rendendo lo spettacolo godibile dall’inizio alla fine e creando un contrasto necessario alla staticità delle scene. Al trionfo collaborano Il Coro e il Coro di voci bianche del Teatro Massimo, entrambi preparati con la solita maestria da Salvatore Punturo.