di Santi Calabrò
L’assunto secondo cui l’insegnamento e la ricerca debbano camminare assieme è spesso non più che uno slogan: il che è anche una fortuna! Applicare quel principio in modo pervasivo, riverniciando discipline, programmi e metodi sin dalla prima parte dei percorsi universitari, può trasformare una finalità condivisibile in pratiche didattiche avventate, che trascurano contenuti fondamentali e metodi consolidati della formazione per produrre delle ibride “tesi di ricerca” – tanto più negli ambiti umanistici e artistici, dove ogni innovazione dovrebbe temperarsi ricordando, con Gadamer, che «c’è una ragione all’opera anche nel conservare». Se però già in pubblicazioni collettive firmate in massima parte da laureandi di primo livello si riscontrano esiti di tutto rispetto – nel solco della letteratura accademica di settore –, allora quei lavori meritano attenzione non solo di per sé, ma anche per il metodo, i principi e i percorsi formativi che li hanno generati. Per questi casi, più che richiamare il monito di Gadamer, si può riscontrare un riflesso di uno dei cardini del pensiero di Hegel, l’Aufhebung (superare che è anche conservare, trasformare che è anche elevare). Hegeliano in senso lato appare appunto il volume Introduzione all’analisi della musica post-tonale, pubblicazione inaugurale di una progettata collana musicologica del Conservatorio di Musica “Fausto Torrefranca” di Vibo Valentia. La recente presentazione proposta in un webinar ha offerto un chiaro spaccato dei contenuti e delle caratteristiche dell’iniziativa. Introducendo il libro, Susanna Pasticci (Università di Cassino) ha evidenziato come i saggi che lo compongono rispondano a principi di interrelazione delle discipline; secondo Pasticci, infatti, è fondamentale innanzitutto inserire gli oggetti di ricerca nel loro quadro storico. A partire da ciò l’analisi non dovrebbe limitarsi alla descrizione di un brano (“come è fatto”), ma porsi domante ulteriori (“come funziona”), allargate alle dinamiche costruttive e al senso musicale. Per questo è da ritenersi un valore il fatto che tutti i saggi del volume pubblicato a Vibo facciano riferimento anche all’esperienza di ascolto. In questa introduzione si è sentita più di una eco del lavoro di ricerca di Pasticci e della sua attività di direttore di riviste specializzate in cui – nella selezione dei lavori e nelle esplicazioni di linee guida metodologiche – ha tenuto ben presente i dibattiti internazionali. Punto nodale, in particolare, il momento in cui a partire dagli anni ’80 del secolo scorso il ripensamento critico dell’analisi ha portato «a una profonda revisione di metodi e fondamenti epistemologici di tutta la ricerca in ambito musicale»; in quei tornanti Joseph Kerman, come ricorda in anni recenti un editoriale della studiosa, ha innescato una miccia puntando l’indice contro la tendenza degli studi musicologici americani a «un approccio oggettivo e totalmente svincolato dalla sfera estetica e dai giudizi di valore».
Le questioni centrali di quel dibattito, che rimane fruttuosamente aperto, continuano a fecondare (o in qualche caso ad affliggere) sia la ricerca che la didattica musicologica. In questo senso appare come una felice congiunzione astrale il fatto stesso che il volume pubblicato a Vibo sia in massima parte firmato da studenti dei Trienni, e in particolare non di corsi triennali di composizione o di musicologia, bensì da corsi che rilasciano lauree in strumento. Le discipline teoriche, in questi percorsi, hanno il ruolo di discipline di base, ma non sono la caratterizzazione primaria del piano di studi. E tuttavia i lavori pubblicati nel volume di Vibo, ben illustrati dagli autori nel webinar, appaiono tutt’altro che scolastici: a cominciare da quello inaugurale (Simmetria ed equilibrio nel Quaderno musicale di Annalibera), dove Maria D’Agostino, prima di addentrarsi nell’analisi di una delle opere centrali di Luigi Dallapiccola, evidenzia il percorso dalla “tonalità” al suo superamento partendo da una ricognizione del concetto di “atonalità”. Lo stesso termine denuncia in effetti solo una privazione, ed è proprio questo, sottolinea D’Agostino, a mandare in crisi il sistema. Spiegato in tal modo il cosiddetto “silenzio creativo” di Schönberg, che troverà il modo di uscirne approdando alla dodecafonia soprattutto grazie a un’intuizione del suo allievo Anton Webern, D’Agostino trova la premessa sia storica che metodologica per introdurre una sorta di “quadrato magico” come strumento analitico per le composizioni dodecafoniche. Il lavoro mostra come questo approccio permetta di scoprire nell’opera dei dettagli che possono altrimenti sfuggire, ma prende anche le distanze dalle canonizzazioni acritiche di certo modernismo storiografico: «La sostanziale indifferenza di questa musica nei confronti del risultato sonoro, nonché la radicalizzazione delle idee dei compositori viennesi, hanno fatto sì … che i suoi risvolti storico analitici si siano rivelati nel tempo tutto sommato più proficui ed interessanti rispetto alla concreta presenza di questo repertorio nei programmi da concerto».
Di notevole impatto critico sui valori e sulle gerarchie della musica del Novecento, per come correntemente restituiti dai manuali, appare anche il contributo di Luigi Sassone (Procedimenti seriali in The Turn of the Screw di Benjamin Britten). Se pure esiste un consenso generale sulla statura di Britten, la sua opera non è ancora molto approfondita dagli studi. Su ciò pesa forse l’apparenza tradizionalista del compositore inglese, che a uno sguardo più approfondito rivela invece una cifra stilistica sia originale che permeata dai fermenti innovativi del XX secolo. The Turn of the Screw (1954), opera tratta dall’omonima novella di Henry James, viene ripercorsa da Luigi Sassone illustrando l’impianto strutturale ricco di simmetrie e l’originalissima adozione delle tecniche seriali, ma anche il legame con la tradizione, in particolare con la tecnica wagneriana dei Leitmotive.
Il saggio di Alberto Capuano (La «bellezza dell’incompleto» in Rain Tree Sketch II di Toru Takemitsu) analizza un brano per pianoforte ravvisandovi la conciliazione operata nel linguaggio composito dell’autore, che guarda sia a significative esperienze del Novecento europeo che alla cultura giapponese, con una sorta di specchio rovesciato rispetto alla musica di Claude Debussy – dove la cultura orientale era filtrata attraverso gli occhi di un occidentale. Il sigillo dell’oriente distingue Takemitsu dal francese soprattutto per l’impianto metrico, libero e privo di impulsi regolari, ma gli esiti dei due compositori presentano significative assonanze strutturali, invitando a una consimile disposizione di ascolto.
Su Debussy verte il lavoro di Marco Ginese (Uno sguardo sul mondo sonoro di Claude Debussy). Dopo una sintesi sui fermenti culturali in atto nell’Europa a cavallo tra XIX e XX secolo e sulla profonda evoluzione subita in quel periodo dal linguaggio musicale, Ginese si concentra sul mondo espressivo del compositore francese, mettendone in evidenza gli aspetti sfuggenti e quasi inafferrabili, dove diventa centrale il rapporto simbolico con l’acqua. In questo senso la scelta di analizzare il brano pianistico Pagodes (1903) si rivela felice oltre che ben condotta, perché chiarisce come anche in «assenza di un esplicito titolo “acquatico”» si possa percepire la “qualità liquida” della musica debussyana.
Oltre che a descrivere lo stile di un autore, l’analisi è utile a demarcarne le fasi. Sotto questo aspetto, il lavoro di Dario Callà (Viaggio nella musica di Stravinskij), selezionando sezioni e aspetti di alcuni lavori fondamentali del russo, sostiene l’idea di una nuova periodizzazione della sua produzione. Nella tradizionale tripartizione (periodo russo, neoclassico e seriale) Callà distingue ulteriormente nella prima fase un periodo giovanile (di apprendistato sotto la guida di Rimskij-Korsakov), un periodo popolare (intriso di citazioni di temi tratti dal folklore russo e contrassegnato dai grandi balletti parigini) e un periodo cubista (rappresentato dalle opere di teatro da camera nate durante la prima guerra mondiale). Alle prese anche con opere dei periodi successivi, Callà mostra una compiuta padronanza di diverse metodologie di analisi applicate a diversi stili della musica post-tonale.
Completano il volume un saggio introduttivo che ne fonda le premesse storiche e l’apparato categoriale (Breve guida per l’analisi della musica post-tonale) e uno in chiusura (Il primo libro dei Préludes di Claude Debussy: tonalità ed interferenze modali), entrambi firmati da Domenico Giannetta, che è anche l’insegnante di “Teoria dell’armonia e analisi” dei giovani autori degli altri saggi. Giannetta ha in Debussy uno dei compositori di elezione, e proprio dal suo modo dialettico di presentarne la musica – dove si svelano spesso anche le “interferenze tonali” sotto le apparenze modali, nel segno di un peculiare neo-modalismo che si mostra intimamente sostanziato del rapporto con la tonalità tardoromantica – si afferra chiaramente il metodo generale della sua prospettiva, anche in riferimento ad altri periodi e autori. Ne beneficiano i suoi studenti che, ricevute solide basi nell’armonia tonale (gli esemplari manuali di Giannetta sono fra i più aggiornati in circolazione), possono allargare lo sguardo su varie declinazioni della musica post-tonale con consapevolezza del flusso storico, delle sue continuità e delle sue fratture. Appaiono del tutto comprensibili, visto il risultato, sia il sostegno accordato al volume dall’Istituzione vibonese (che, come dichiara il suo direttore Vittorino Naso, conta di proseguire con altri Quaderni di analisi), sia il giudizio complessivo di Susanna Pasticci: «libro di valenza nazionale, che può diventare il prototipo di un nuovo interesse verso la musica post-tonale».