di Attilio Piovano
Serata indimenticabile mercoledì 20 ottobre 2021, a Torino in Conservatorio, con il pianista pietroburghese Arcadi Volodos – classe 1972, oggi uno dei più grandi sulla scena mondiale – che da molti anni non figurava nelle stagioni dell’Unione Musicale.
Non a caso, di evento attesissimo si è trattato. Volodos – si sa – è pianista raffinato ed elegante, con un culto quasi maniacale del bel suono e del tocco. Un conto, tuttavia, è ascoltarne le pur pregevoli e superbe registrazioni, altra cosa è vivere l’emozione della sala semi buia, ammirandone già solo la postura – entro il silenzio assoluto che propizia ogni interpretazione – ed il magnetismo che sprigiona, facendo comprendere sin dalle prime note del recital come il suo pianismo punti su intimismo e profondità, non certo su vacui funambolismi virtuosistici, pur possedendo egli – beninteso – una tecnica straordinaria.
Davvero singolare il programma impaginato da Volodos che si è inaugurato con le schumanniane Kinderszenen op. 15 delle quali ha distillato tutta la ricchezza contenutistica, sfoderando in primis un tocco e un controllo del suono come pochi possono vantare nel mondo. A fine serata, conversando con il tecnico accordatore che gli aveva preparato lo Steinway nuovo di zecca, apprendevamo di certe sue richieste specifiche circa affondo dei tasti, uso di speciali feltri e via elencando. In realtà si tratta non già di espedienti, bensì di elementi tecnici pur rilevanti, che peraltro non avrebbero alcun ‘effetto’ se non fossero posti al servizio di una lucida intelligenza interpretativa e di una singolarissima sensibilità, soprattutto coloristica.
Ed ecco che le singole ‘scene’ schumanniane sono andate dipanandosi con scorrevolezza, rivelando un’inaudita ricchezza. Fin dal profetico brano d’apertura dall’armonia quasi sfuggente (Da genti e paesi lontani) quasi un incoativo favete linguis, Volodos mostrava libertà di fraseggi, estrema cura di dettagli dinamici e un uso davvero creativo del pedale. Poi ecco la vivacità flamboyante della Storia curiosa e gli arguti anacoluti di Mosca cieca dai mirifici staccati, l’assorto misticismo del Bimbo che prega in cui Volodos ha saputo creare una sospensione quasi irreale, facendoci lievitare in una sorta di mondo ideale ed iperuranio, per poi portarci nuovamente su ‘questo mondo’ con i bassi possenti e la solennità pomposa condita di ironia dell’Occasione importante. A seguire il celeberrimo Traumerei (Trasognamento) raramente ascoltato in un’interpretazione così concentrata: ogni nota il suo giusto peso, la linea melodica bene in evidenza, in perfetto equilibrio con l’armonia e molto altro ancora, sì da porne in evidenza tutta la rarefatta poesia sostanziata di anacoluti, reticenze e allusioni intimistiche. Quanta ricchezza ritmica, poi, sfoderata nel non meno celebre e gaio Cavalluccio di legno coi suoi ritmi scazonti, ovvero le sue frasi sghembe e dunque il gioco sapiente degli spostamenti d’accento magistralmente posti in atto da Volodos. Ammirevole la varietà dei registri adottati nel bizzarro Far paura, con quelle sue spezzettature e quel suo incedere. Il coronamento, il clou, dopo la cullante pagina volta a delineare il bimbo che entra nel mondo dei sogni, addormentandosi, nello sfuggente ed enigmatico brano conclusivo, Parla il poeta nel quale Volodos ha davvero saputo attingere a vette inarrivabili ed eccelse, rivelando un uso a dir poco sopraffino del pedale. Lungo silenzio, mani immobili, sguardo assorto, tutti col fiato sospeso e poi lo scroscio degli applausi per una interpretazione schumanniana della quale conserveremo a lungo un ricordo indelebile.
Poi la poco frequentata Sonata D 850 di Schubert, tutta intimismo e atmosfere singolari, ma anche allusioni a timbri orchestrali, specie nel movimento d’esordio. E Volodos ha saputo esaltare magnificamente questa insolita dimensione timbrica dandone un’interpretazione di singolare bellezza. Grande ricchezza di timbri già nell’Allegro iniziale, poi nel secondo tempo dove, ancora una volta – a costo di risultare ridondante – merita registrare un impiego del pedale, o per meglio dire dei pedali, come pochi altri pianisti sanno porre in atto, al sevizio di una pregnanza armonica che non ha eguali in altre pagine schubertiane. Del terzo tempo (lo Scherzo) Volodos ha inteso – molto opportunamente – porre in luce il carattere salottiero, quasi Biedermeier, facendo emergere quella leggerezza talora un poco frale fatta di allusioni alla danza ed altro ancora che ne costituisce il motivo di maggior fascino. Da ultimo lo humour del Rondò finale, leggiadro e seducente, pervaso di una fanciullesca giocosità, giù giù sino all’epilogo immerso in un «clima di sospesa fissità». Ancora il protratto silenzio, l’immota postura di Volodos e poi l’abbondanza degli applausi, catartici e riconoscenti ai quali Volodos ha risposto, producendosi generosamente in ben cinque bis: lo schubertiano, lezioso Minuetto in do diesis minore D 600, poi il primo degli Intermezzi op. 117 di Brahms, emerso per intensità e commozione, dolce e melanconica ninna nanna della quale molto a lungo conserveremo memoria. E ancora El Lago di Mompou, la toccante Siciliana dal Concerto in re minore BWV 596 che Bach concepì per organo, trasponendo un originale violinistico vivaldiano e da ultimo chiusura – ciclicamente – nel segno di Schumann con il terzo tempo (Langsam getragen) dalla Fantasia op. 17. A dir poco un trionfo.