Giorgio Sanguinetti. Le Sonate per pianoforte di Beethoven. Serie diretta da Guido Salvetti sotto gli auspici del Beethoven-Haus di Bonn. Vol. I, LIM, Lucca
di Santi Calabrò
L’avvio della pubblicazione di cinque volumi dedicati alle Sonate per pianoforte di Beethoven a partire dal 2020, anno in cui ricorrono i Duecentocinquanta anni dalla nascita del compositore, non può passare inosservata. A Giorgio Sanguinetti, che firma il libro appena uscito, è forse toccato il compito più impegnativo, perché il libro che apre la serie non descrive una per una le Sonate (cosa che faranno i volumi successivi, rispettivamente di Leonardo Miucci, Guido Salvetti, Francesco Scarpellini Pancrazi e Federica Rovelli), ma presenta un quadro generale dei principali aspetti pertinenti alla summa del repertorio pianistico. Vista l’ampiezza degli studi su Beethoven e sulle sue opere, l’impresa è da temerari o da studiosi particolarmente dotati. Sanguinetti è molto bravo: esclusa intenzionalmente la storia della tradizione interpretativa, riesce a tenere insieme gli argomenti desiderabili in un volume tripartito (Genere, Forma, Espressione), mostrando ampiezza di conoscenze ed eccellente capacità di sintesi su vari versanti. Il risultato è non solo chiaro nell’esposizione e aggiornato, ma anche ambizioso, onesto e vivo. Ambizioso, perché Sanguinetti non rinuncia a dare la sua impronta a molte questioni. Onesto, perché la completezza dei riferimenti fa sì che le tesi critiche sostenute, siano esse diffusamente condivise nel mondo della globalizzazione accademica o proposte dallo stesso Sanguinetti, contengano sia nel modo trasparente della loro enunciazione sia nelle ben scelte citazioni – in ogni caso nello stesso testo – i riferimenti per una loro riformulazione da altra prospettiva, o anche per una confutazione. Proprio questo rende il libro “vivo”: non solo da leggere e poi riporre, ma adatto a suscitare riflessioni, ripensamenti e ulteriori approfondimenti. Prendiamo il caso dei nuovi filoni di ricerca che concernono gli esercizi su cui i compositori, incluso Beethoven, formavano la loro arte. Sanguinetti mostra come questi studi si intreccino con quelli sui Topoi musicali, intersecando così aspetti di forma e di contenuto, e portino ad aggiustare il tiro sulla comprensione dei meccanismi creativi, dove le convenzioni, la combinatoria e il riuso guadagnano terreno su concetti come “ispirazione” o “originalità”. Inevitabilmente, tutto ciò si confronta con le “teorie forti”, e Sanguinetti dà conto di questi movimenti di pensiero, in riferimento anche a conseguenze recentissime, a cominciare dalla messa in discussione di un gigante della teoria del secolo scorso come Heinrich Schenker. Eppure, nel corso del volume i diversi riferimenti a Schenker sono così puntuali e centrati che quando il lettore si imbatte in questi aggiornamenti può già prevedere il futuro: un conto la visione generativa schenkeriana, che potrà essere ridimensionata da una sempre più precisa ricognizione del laboratorio di un compositore del Settecento e dell’Ottocento, un conto le principali intuizioni analitiche di Schenker. Anche quando si allontana dai territori prediletti della teoria e dell’analisi della musica, Sanguinetti, che è un’autorità internazionale di una parte della ricerca sui modelli didattici antichi (quella che riguarda i partimenti, bassi dati per lo studio dell’armonia e del contrappunto che si realizzavano direttamente alla tastiera aggiungendo la mano destra), dimostra come la specializzazione ai massimi livelli in un settore non sia sempre sinonimo di livello generico su altri versanti. Una fra le aperture più brillanti di questo libro potrebbe infatti essere firmata da un esperto di Estetica: la reinterpretazione e la chiarificazione della nota opinione di Adorno sul tardo stile beethoveniano, alla luce di una nuova visione delle convenzioni che Adorno non poteva conoscere e che pure, secondo Sanguinetti, in qualche modo intuisce. L’assunto è convincente, e svolto con esemplare equilibrio tra il punto di vista tecnico e quello filosofico. Altre sezioni del libro appaiono necessariamente più divulgative, come quelle dedicate alla scelta del testo più appropriato o alle prassi esecutive. Qualche menda a livello terminologico (per esempio “tocco parlante” in riferimento allo “stile” di esecuzione appropriato alle opere dello stile classico) non inficia il valore del quadro presentato, idoneo come avvio a conoscenze che oggi un esecutore non dovrebbe ignorare. Anche la ricostruzione del contesto originario di destinazione e fruizione delle opere è agile e ben centrata, nonché puntuale nel segnalare i momenti cruciali in cui la “storia degli effetti” impone cambiamenti di paradigma.
In pochi momenti i pregi multifocali del lavoro conoscono una parziale eccezione, e la completezza o la possibile apertura a una diversa prospettiva critica richiedono “soccorso esterno”, cioè riferimenti ad aspetti che nel libro sono trascurati o richiamati in modo eccepibile. Questo avviene proprio nella parte centrale dedicata alla forma-sonata: questione ineludibile quando si parla di Beethoven, visto che una Teoria della forma musicale in senso moderno nasce per gran parte in rapporto alle sue opere. La sezione relativa alla preistoria del concetto, richiamando le trattazioni di Koch e Galeazzi, è già presente nella prima parte del volume nel paragrafo sulla “forma autentica”. È questo un colpo da maestro nell’arte della dispositio, perché la separazione netta tra descrizioni “in diretta”, nel cuore dello stile classico, e un modo di teorizzare che prende figura sullo scorcio dell’esistenza di Beethoven (la Formenlehre propriamente detta) presenta indubbi vantaggi di chiarezza concettuale. Tutta la parte centrale sembrerebbe però entrare in tensione con uno degli assunti iniziali di Sanguinetti: il proposito di non intendere il discorso critico su Beethoven “in senso progressivo”. Per un verso determinate teorie (per esempio quelle di Riemann) sono esposte di passata perché “lontane” dall’epoca di Beethoven, per altro verso le teorie sulla forma sembrano intonare proprio un inno al progresso, fino a una sorta di età dell’oro – che sarebbe la nostra. La contraddizione è parzialmente evitata in modo abile, visto che Sanguinetti sostiene come determinate teorie moderne siano “storicamente informate”: ciò basta ad allontanare il sospetto di un “progresso” a priori o di una preferenza troppo sintonizzata sulle mode accademiche? In realtà, ogni studioso fa le sue scelte secondo le domande che pone alle opere. Al teorico dei nostri giorni cui accorda il suo maggior favore, William Caplin, Sanguinetti riserva dunque una sintesi non solo accurata, ma che supera qualsiasi altro argomento trattato per numero di pagine. L’importanza attribuita alla cosiddetta “rinascita” della Formenlehre – che si esprime, oltre che in Caplin, nella Sonata Theory di James Hepokoski e Warren Darcy – è diffusamente sostenuta in tutto il volume. Eppure qui le possibilità di una visione alternativa non mancano, anche se in questa fase storica la domanda di un’analisi che dia conto dell’individualità dell’opera non appare fra quelle più pressanti in ambito accademico. Pur senza disconoscere i pregi degli autori oggi di riferimento, non è necessario essere più capliniani di Caplin! Al riguardo le conclusioni di Sanguinetti appaiono troppo ottimistiche: si assisterebbe al «passaggio da una concezione tassonomica della forma musicale a una funzionale». Un primo “soccorso esterno” dello stesso Caplin può già aprire a valutazioni meno nette. Lo studioso americano riconosce infatti in un suo articolo come i suoi studenti abbiano spesso «difficoltà a negoziare tra la necessità di accettare un insieme di principi teorici rigorosamente stabiliti e il desiderio di flessibilità offerto da opere musicali che sembrano resistenti alla semplice classificazione»: ammissione che mette in questione la narrazione teleologica di una formazione-decadenza-caduta e rinascita (in grande stile) della Formenlehre. A tale proposito, in un libro così onesto, non mancano spunti per rilievi critici nella stessa direzione. Si può facilmente osservare, confrontando la descrizione della Melodia di Galeazzi e il Grand coupe binaire (non si chiama ancora forma-sonata, ma lo è) di Reicha, come non solo Reicha (vivente ancora Beethoven) sia uno dei padri della moderna analisi (il suo schema, segnala Sanguinetti, è la prima rappresentazione grafica di una forma musicale), ma proponga una semplificazione tanto nefasta per analizzare molte sonate classiche, quanto produttiva come guida per comporre nel mutato orizzonte stilistico postclassico. Lo schema di Reicha infatti non accenna ad altre idee tematiche oltre a quella iniziale, nell’esposizione sonatistica, prima di completare la modulazione principale: con ciò il bitematismo si attacca all’idea di forma-sonata e non ne uscirà più! In questo senso chi pensa che alcuni aspetti della cosiddetta New Formenlehre siano una riproposizione in grande scala della più dogmatica Formenlehre applicata all’analisi, può trovare in questo libro qualche rafforzamento: dell’unico schema di James Hepokoski che riporta nel suo libro Sanguinetti afferma che ricorda proprio quello di Reicha! E come dargli torto…
Per altri aspetti la trattazione di Sanguinetti richiede un confronto diretto con i testi richiamati. Sanguinetti riprende da uno storico manuale di storia dell’analisi la discutibile espressione di “dissenso empirista” coniata per Donald Tovey, e la estende a Edward Cone e a Charles Rosen: poi si sorprende se da questi “empiristi” provengano anche risultati non lontani da una visione “organicista”! Basterebbe chiamarlo dissenso “antidogmatico”, o “con solide argomentazioni musicali e fenomenologiche”, e si eviterebbero le trappole della lingua. Il “principio-sonata”, nelle diverse ma unitariamente riconoscibili formulazioni di Cone o Rosen, è di per sé un concetto organico, che postula e verifica nella forma l’interrelazione tra armonia ed elementi di superficie. Proprio con l’accusa più insidiosa, la “fallacia dell’argomento fantoccio” – nel senso che non si capirebbe bene quale sia il bersaglio di Tovey, Cone, Rosen, Ratner –, si rientra peraltro nel lato onesto e autonomo di un libro che raramente confonde l’aggiornamento con le distorsioni della “storia dei vincitori”. Infatti, la stessa sintesi storica di Sanguinetti coglie sì il fatto che all’interno della Formenlehre tra Ottocento e Novecento ci sia ben più della “ricetta” scolastica della forma-sonata, ma anche, con una chiarezza finora inedita, che proprio i concetti poi “ossificati” siano quelli che hanno avuto più fortuna e seguito (il che affossa l’accusa di fallacia). In massima parte la condizione dell’ossificazione è data, come nel caso di Reicha, dal fatto che anche altri principi costruttivi, presentati proprio da Sanguinetti con precisione chirurgica, siano distorsivi per l’analisi, ma invece adatti per comporre sia sonate “di scuola” che di alto livello, in altre epoche e ambiti successivi all’età dello stile classico viennese.
Segnaliamo infine il fatto che nell’introduzione di Guido Salvetti non sia stata aggiunta una nota esplicativa alla dichiarazione che le Sonate pianistiche di Beethoven ammontino a “35”. Si capisce dal contesto che l’analisi dei volumi successivi includerà le tre Sonate giovanili WoO 47, ma da qui a dare per buona la sostituzione del numero canonico di 32 Sonate (quelle con numero d’opera) ce ne corre. Grosso dubbio per gli studenti che sosterranno d’ora in poi un esame di Storia della musica: l’esaminatore si sarà aggiornato avventurandosi su questi ultimi tornanti accademici o terrà il punto del canone? Come rispondere in modo secco a una domanda del tipo: quante Sonate per pianoforte ha scritto Beethoven? Poi uno legge il seguito dell’introduzione di Salvetti e si tranquillizza sull’umiltà degli intellettuali: «l’apprendistato esecutivo può diventare il fine ultimo di una rilettura delle 35 Sonate di Beethoven… la pratica musicale può e deve partecipare alla vicenda culturale dei nostri anni; e lo potrà fare solo se riuscirà a introiettare “consapevolezza” (come oggi si usa dire) non soltanto di questioni organologiche e di “prassi esecutive”; bensì soprattutto delle implicazioni strutturali e simboliche che le opere d’arte musicali – come tutte le opere d’arte – pongono incessantemente e reiteratamente». E non ci si limita a chi suona: il senso dell’impresa editoriale consisterebbe anche nel sollecitare la più «profonda possibile delle ricezioni attraverso l’ascolto». Attendiamo con trepidazione i prossimi volumi: chissà se dal cimento della lettura chi ascolta o suona non riesca solo a introiettare nella sua esperienza un “razzo di Mannehim” o una “quinta dei corni” (oggetti di elezione delle aggiornatissime ricerche sui Topoi musicali), ma anche ad assumere orientamenti decisivi per le proprie scelte etiche, politiche o religiose!