Opera • Al Teatro Comunale torna in scena The Turn of the Screw nel suggestivo allestimento di Giorgio Marini. La direzione di Jonathan Webb è di riferimento e si giova di ottimi strumentisti. Tra le due compagnie di canto, la seconda supera la prima
di Francesco Lora
NELLA STAGIONE D’OPERA 1996-97 del Teatro Comunale di Bologna figurava The Turn of the Screw (Il giro di vite) di Benjamin Britten, opera-capolavoro allora meno diffusa sulle scene italiane di quanto non lo sia oggi: madrina dello spettacolo fu Raina Kabaivanska, nella parte dell’Istitutrice, ed era atteso un allestimento del Teatro Regio di Torino, con regìa di Luca Ronconi, scene di Margherita Palli e costumi di Vera Marzot. Se la memoria non tradisce, si rinunciò poi allo spettacolo di Ronconi poiché il palcoscenico bolognese non bastava a contenerlo insieme con un altro montato negli stessi giorni; fu così commissionato un nuovo allestimento, con regìa di Giorgio Marini, scene di Edoardo Sanchi e costumi di Elena Cicorella, e il pubblico del Comunale sbuffò davanti al ripiego. Rivisto sedici anni dopo nello stesso teatro – sette recite dal 19 al 27 novembre per celebrare il centenario della nascita di Britten – lo spettacolo di Marini incassa ora l’ammirazione che merita. Lo caratterizzano la soffusa atmosfera vittoriana, le scene tutte dipinte (dovevano occupare poco spazio) che danno luogo a una serie ben sedici mutazioni e ad altrettanti virtuosismi prospettici, e soprattutto gli enormi finti specchi di velatino, attraverso i quali un personaggio si riflette nell’altro, rivelando i tratti di psicologia comune o avversaria, e confondendo se il mondo reale sia quello al di qua o al di là del cristallo.
È eccellente ciò che si guarda ed è eccellente ciò che si ascolta, in primo luogo grazie alla direzione di Jonathan Webb, indiscusso specialista britteniano, e ai quattordici sceltissimi elementi dell’Orchestra del Teatro Comunale. L’escursione dinamica, la flessibilità agogica e la varietà timbrica toccano vertici interpretativi una scena dopo l’altra: oltre a una rara esattezza tecnica traspare l’entusiasmo di ciascun musicista, mentre il respiro del direttore va a combaciare con ogni frase del compositore prediletto.
Tra le due compagnie di canto, curiosamente, la prima si fa bagnare il naso dalla seconda. Per esempio Anne Williams-King, come Istitutrice, suona troppo solida, matura e sicura; si preferisce Sara Hershkowitz, che con voce più chiara e risonante dà luogo a un personaggio giovanile e inquieto: quello, appunto, che suggerisce la rilettura della fosca storia (fantasmi depravati e bambini corrotti) in chiave di delirio isterico della donna. Come Prologo e come Quint, Randall Bills è funzionale e nulla di più, mentre con Boyd Owen il narratore ritrova la giusta impassibile signorilità e il fantasma ripiglia i giusti toni insinuanti e il vocalizzo che ammalia. La Mrs. Grose di Laura Cherici, pur credibile, è una donnetta debole con voce di soprano lirico-leggero; interpretato da Gabriella Sborgi, con la voce di mezzosoprano che gli compete, il personaggio vanta ben altra rotonda affettuosità e forza di indignazione.
Vi è poi l’esperimento della camaleontica Cristina Zavalloni nel teatro d’opera e nella parte di Miss Jessel: a lei dà filo da torcere Patrizia Orciani, veterana della parte, la quale conosce il luogo di ogni sfumatura e colora idealmente il fantasma con la tagliente vetrosità stessa del registro acuto. Persino Erin Hughes, che solo nell’ultima serata cede la parte di Flora ad altra interprete, cresce in modo sorprendente dalla prima alla seconda recita: intonazione più accurata, gesto più spigliato, volume più ragguardevole. Infine, il punto più sensibile della locandina, e cioè l’assegnazione della parte di Miles, forse la più ardua mai concepita per una voce bianca: il minuscolo Sebastian Davies ha dalla sua l’innocenza della figura, ma la lettura musicale e le risorse vocali non godono ancora della padronanza necessaria. Dominic Williams, più grandicello, è il caso opposto: è un adolescente còlto, per sua sfortuna, in piena muta della voce (al punto che le urla fuori campo, nella scena VII dell’atto I, rivelano un parlato già da adulto); il registro grave risulta così affiochito, e quello acuto è ormai agli ultimi sprazzi: soprattutto nella scena finale, però, il suo talento attoriale consegna al ricordo un’interpretazione da brivido.
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