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«Carmen» chiude la stagione del Teatro Regio di Torino

di Attilio Piovano
27 Giugno 2016
in OPERA
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di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese


ULTIMO TITOLO IN CARTELLONE, per la stagione del Teatro Regio di Torino, e si è trattato di Carmen, vero e proprio evergreen che di norma, si sa, garantisce il tutto esaurito. La sera dello scorso 22 giugno il capolavoro di Bizet è approdato nell’assai discutibile allestimento dell’Opernhaus Zürich, con la scialba (per non dire pressoché ‘inesistente’) regia di Matthias Hartmann e le scene di Volker Hintermeier in buona parte del tutto prevedibili. Una Carmen mediocrissima, quella alla quale abbiamo assistito, ed è un peccato: perché ci si aspettava davvero qualcosa in più per suggellare una stagione che ha conosciuto momenti di alto livello – lo sanno bene i lettori che forse ci hanno seguito fedelmente – con spettacoli in buon parte di innegabile rilievo.

Nonostante tutto, a fine serata lo spettacolo ha registrato complessivamente un buon successo, grazie al versante musicale (che pure conteneva luci ed ombre). Occorre riconoscerlo, un vero e proprio successo personale lo ha conseguito l’ottima Irina Lungu, non già nei panni della bella e conturbante gitana, bensì nel ruolo della mite Micaëla, tant’è che verrebbe da intitolare «Al Regio, Carmen è… Micaëla», o qualcosa di simile.

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Lo si è capito fin dal duetto con don José, «Parle-moi de ma mère» nell’atto primo, poi applausi copiosi a scena aperta nell’unica vera aria di Micaëla che possa dirsi tale, ovvero «C’est des contrabandier» nel terz’atto: pagina ricca di effluvi melodici, ibridata di  raffinatezze ed eleganze squisitamente francesi, alla quale Puccini attinse a piene mani. E la Lungu ce lo ha fatto comprendere come raramente accade. Festeggiatissima a fine serata, ha finito per insidiare il successo della pur esperta Anna Caterina Antonacci che ha disimpegnato con entusiasmo e fin troppa finezza  la sua parte; l’avremmo voluta più carnale, più sensuale, più ferina, sia sul piano attoriale (ma qui la colpa è della non-regia), sia pure sul piano vocale, in un ruolo che forse non le è del tutto congeniale, almeno oggidì, dacché sfodera strani passaggi di registro: a dispetto delle moltissime volte in cui ha affrontato Carmen con partner di spicco (da Kaufmann in giù). Sicché la celebre «Habanera» non ha regalato quei brividi che di solito innesca. Molto bene la scena delle carte, bene il fatalismo tragico che la Antonacci ha saputo imprimere al personaggio e bene la parte finale con il drammatico epilogo. Molto efficace il quintetto per saldezza interpretativa.

Ed ora il versante maschile; il tenore Dmytro Popov dalla voce significativa e ragguardevole (oltre che molto corposa) ha sbozzato un don José credibile, appassionato e aitante. Assai ammirato nel lungo passo in cui tenta disperatamente di riconquistare l’ormai perduta Carmen; bene poi il punto in cui, distrutto dalla gelosia, al culmine della disperazione, vedendosi gettare a terra l’anello pegno d’amore, decide di uccidere la donna e costituirsi. Non così Vito Priante nel ruolo del torero Escamillo, apparso un poco appannato e rigido, impacciato, fin troppo educato ed azzimato. Occorre un’allure più focosa; inoltre si sono registrate imprecisioni di intonazione e ritmicamente non sempre era in asse in «Toreador». Bene vocalmente Frasquita e Mercédès (rispettivamente Anna Maria Sarra e Lorena Scarlata Rizzo), ma solo la prima delle due anche convincente sul piano scenico, assai impacciata invece la sua compagna, specie nella danza.

La direzione di Asher Fisch inizialmente ha lasciato perplessi, con tempi allentati nell’ouverture, c’era un che di irrisolto, vi erano alcune ineleganze e in media poca cura dei dettagli. Poi però è andato ‘carburando’ trovando il giusto equilibrio, e allora a partire dal second’atto, soprattutto nel terzo e nel quarto, ecco che sul piano strumentale l’opera è decollata, toccando vertici di pathos nella già citata scena delle carte e soprattutto verso il finale (orchestra un po’ stanca a fine stagione, ma pur sempre in buona forma).

Il coro ha fatto benino, con qualche vistosa défaillance sul piano della dizione un po’ troppo ‘piemontese’, piccole inesattezze ritmiche la sera della prima, come sempre destinate a scomparire nel corso delle repliche; molto bene invece il coro di voci bianche (i ragazzini e le ragazzine inoltre si sono mossi davvero con naturalezza in scena, sfoggiando spigliata e sbarazzina agilità), bene dunque la preparazione a cura di Claudio Fenoglio.

Ed ora le dolenti note della regia e delle scene, anzi della scena unica, di fatto, con quella piattaforma circolare che fin dall’inizio, lo si capisce, è posta lì per fungere da arena (e nemmeno tale, a ben guardare…); e dunque già prefigura la plaza de toros. Ma che senso ha far comparire in apertura il coro dei dragoni ovvero dei gendarmi vestiti a metà strada tra poliziotti, carabinieri e vigili urbani? E poi alcune inutili gags che si potevano francamente evitare, come quella dell’insinuante e galante Moralès che strappa di mano al suo ‘collega’ un giornaletto / calendario osé…, sotto un bianco ombrellone: un po’ troppo da avanspettacolo. Scialba anche la faccenda dello strappo della corda da parte di Carmen che si gingilla con un pezzetto di cordino buono tutt’al più a legare un pacchetto. L’insegna al neon, poi, che cala dall’alto con il sigaro stilizzato ce la potevano francamente risparmiare, con una manifattura tabacchi resa in modo maldestro grazie a un’unica porta che pare da saloon e – superbo tocco di kitsch, del tutto inutile – quel cane finto acciambellato sul proscenio che poi scodinzola (con un telecomando o forse con un touch screen… chissà). Idem dicasi per il tv color sul tavolo dell’osteria di Lillas Pastia che trasmette in diretta la partita, e all’arrivo di Escamillo mostra la corrida; in primo piano un palo della luce con isolatori anni ‘50 ed una luminaria da paese che sarebbe andata meglio per Cavalleria o Pagliacci… Ma tant’è.

Efficace l’esordio del terz’atto, ma troppe banalità nella scena dei contrabbandieri; da ultimo, per l’atto conclusivo, ecco un (pur gradevole) enorme ulivo al centro della scena, la solita piattaforma circolare e in primo piano un ancor più prevedibile teschio di toro. Il coro dei bambini inneggia alla corrida (in direzione del pubblico), ma è soluzione già vista e stravista, e soprattutto si poteva evitare quell’ondeggiare di accendini, ma per favore! Non siamo a un concerto rock e poi ti pare che i ragazzini sulla piazza di Siviglia, prima della corrida, in pieno giorno col sole che accieca, si aggirino ognuno con un accendino in tasca? Ma dai…  A parte questo, null’altro da eccepire sulla poca fantasia svizzera.

Pochi applausi alla direzione, molti ai cantanti (nell’ordine a Irina Lungu, all’Antonacci ed a Popov), alcuni vistosi e riconoscibili buu all’insegna della regia. Costumi francamente casuali e mortificanti (sul versante femminile) di Su Büher. Repliche sino al 3 luglio con doppio cast (Veronica Simeoni, Roberto Aronica, Mariangela Sicilia e Luca Grassi nei ruoli principali) e la direzione di Ryan McAdams per le ultime due recite.

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Attilio Piovano

Attilio Piovano

Musicologo e scrittore, ha pubblicato (tra gli altri) Invito all’ascolto di Ravel (Mursia 1995, ristampa RCS 2018), i racconti musicali La stella amica (Daniela Piazza 2002), Il segreto di Stravinskij (Riccadonna 2006) e L’uomo del metrò (e-book interattivo per i tipi de ilcorrieremusicale.it 2016, prefazione di Gianandrea Noseda). Inoltre i romanzi L’Aprilia blu (Daniela Piazza 2003) e Sapeva di erica, di torba e di salmastro (rueBallu 2009, prefazione di Uto Ughi). Coautore di una monografia su Felice Quaranta (con Ennio e Patrizia Bassi, Centro Studi Piemontesi 1994), del volume Venti anni di Festival Organistico Internazionale (con Massimo Nosetti, 2003), curatore e coautore del volume La terza mano del pianista (Testo & Immagine 1997). Laurea in Lettere, studi in Composizione, diploma in Pianoforte, in Musica corale e Direzione di Coro, è autore di contributi, specie sulla musica di primo ‘900, apparsi in volumi miscellanei, atti di convegni e su rivista. Saggista e conferenziere, vanta collaborazioni con La Scala, Opéra Royal Liège, RAI, La Fenice, Opera di Roma, Lirico di Cagliari, Coccia di Novara, Carlo Felice di Genova, Stresa Festival, Orchestra Camerata Ducale ecc.; a Torino col Festival MiTo (già Settembre Musica, ininterrottamente dal 1984), Unione Musicale, Teatro Regio, Politecnico e con varie altre istituzioni. Già corrispondente del «Corriere del Teatro», ha esercitato la critica su più testate; dalla fondazione scrive per «ilcorrieremusicale.it»; ha scritto inoltre per «Torinosette», magazine de «La Stampa», ha collaborato con «Amadeus» e scrive (dal 1989) per «La Voce del Popolo» (dal 2016 divenuta «La Voce e il Tempo»); dal 2018 recensisce per «Il Corriere della Sera» (edizione di Torino). Membro di giuria in concorsi letterari nonché di musica da camera e solistici. Docente di Storia ed Estetica della Musica (dal 1986, presso vari Conservatori), dal 1991 a tutt’oggi è titolare di cattedra presso il Conservatorio “G. Cantelli” di Novara dove è inoltre incaricato dell’insegnamento di Storia della Musica sacra moderna e contemporanea nell’ambito del Corso biennale di Diploma Accademico in Discipline Musicali (Musica sacra) attivato dall’a.a. 2008/2009 in collaborazione col Pontificio Ateneo di Musica Sacra in Roma. Dal 1° gennaio 2018, cura inoltre l’Ufficio Stampa del Conservatorio “G. Cantelli”. Dal 2012 tiene corsi monografici sulla Storia del Melodramma (workshop su «Architettura, Scenografia e Musica» presso il Dipartimento di Architettura & Design del Politecnico di Torino, Corso di Laurea Magistrale, in collaborazione con Fondazione Teatro Regio). È stato Direttore Artistico dell’Orchestra Filarmonica di Torino. Dal 1976 a Torino è organista presso la Cappella Esterna dell’Istituto Internazionale ‘Don Bosco’, Pontificia Università Salesiana (UPS), dal 2017 anche presso la barocca chiesa di San Carlo, nella piazza omonima, e più di recente in Santa Teresa. Nell’autunno del 2018 in veste di organista ha partecipato ad una produzione del Requiem op. 48 di Fauré. È citato nel Dizionario di Musica Classica a cura di Piero Mioli, BUR, Milano © 2006, che gli dedica una ‘voce’ specifica (vol. II, p. 1414).

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