di Redazione

Bryan Hymel, o della creazione spasmodicamente necessaria di nuove leggende canore. Questo potrebbe essere il titolo di una dissertazione filosofica non tanto, nello specifico, sul primo disco targato Warner del giovane talento americano ma, più in generale, sul bisogno delle major di dare vita a fenomeni vocali corredandoli di un payoff più o meno dichiarato che esalti virtù – a detta loro – più uniche che rare tramite campagne pubblicitarie giustamente seducenti.
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In questo caso, si tratterebbe di acuti e sovracuti come se piovesse, nella fattispecie di diciannove Do di petto meticolosamente contati e dichiarati. Intendiamoci: Bryan Hymel ha solo trentacinque anni e, meritatamente, s’è già esibito presso il Metropolitan ed il Covent Garden, dapprima come sostituto degli spesso evanescenti Kaufmann e Flórez, poi con regolare, anticipato invito. Il ragazzo è di bell’aspetto, coi tratti ingentiliti dalla pinguedine incipiente che caratterizza la specie tenorile; canta in maniera levigata ed omogenea, con un timbro che in zona grave si fa impressionantemente simile a quello brunito e baritonale del divino Jonas, ed in buon francese, con tutte le nasalizzazioni al posto giusto. Gli acuti ci sono, eccome se ci sono: tutti e diciannove i Do ed anche oltre, perfettamente proiettati, grandi come una casa e, per di più, tenuti per tempi infiniti (si senta, come esempio definitivo, la puntatura su «Aux armes!» nel finale della celebre aria di Arnold dal quart’atto del Tell rossiniano).

Il programma è allettante, ben assemblato; il titolo azzeccato. Cosa manca, dunque? È difficile da catturare nella trama a volte castrante delle parole quello che è l’etereo simulacro del vero mito, che non dev’essere creato ad arte ma che, semplicemente, è l’epifania dell’arte stessa. Plaudiamo quindi con sincera ammirazione all’interpretazione al contempo titanicamente stupefatta e partecipe di «Nature immense» dell’aria di Faust dalla Damnation berlioziana, alla facile scorrevolezza con cui scivola via «O jour de peine et de souffrance» da Les vêpres siciliennes – tour de force che non ha risparmiato quasi nessun predecessore di Hymel in esecuzioni dal vivo –, alle morbidezze sognanti dell’attacco di «Pays merveilleux… Ô Paradis…» dall’Africaine meyerbeeriana, alle belle rarità tratte dal Sigurd di Reyer, dall’Attaque du moulin di Bruneau e dal Roland e le mauvais garçon di Rabaud. Ma il timbro pare essere piuttosto anonimo, pieno sì eppure non rotondo. Le sfumature dinamiche pressoché inesistenti, complice anche la poco ispirata bacchetta di Emmanuel Villaume, che raramente riesce a far spiccare il volo alla Prague Philharmonia. La personalità non è magnetica: né ammaliatrice né istrionica. Signor Hymel, Lei è un ottimo cantante e di questo può star certo e andare fiero.

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Pubblicato il 2015-04-19 Scritto da IlariaBadino

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