Concerti • Il recital del mezzoprano all’Accademia di Santa Cecilia. Un programma dedicato all’arte dei castrati in perfetto equilibrio tra virtuosismo e sentita interpretazione
di Ilaria Badino
Cecilia Bartoli è finalmente riuscita a perpetrare il proprio Sacrificium nella natìa Roma. Lunedì 8 aprile, infatti, la diva che tutto il mondo c’invidia s’è esibita presso l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (no, non la Bartoli in questo caso, ma la martire cristiana patrona dei musicisti) nel tributo alla straordinaria – in tutti i sensi – arte dei castrati. Ultima data della tournée, questa, avendo già fatto da parecchi mesi capolino sul mercato il nuovo disco solistico dedicato al misconosciuto, ma pienamente meritevole di assurgere a rinnovato splendore, Agostino Steffani.
Al concerto, così come all’omonimo CD, avrebbe donato il sottotitolo “Agitata da due venti”, giusto per citare una delle prime, maggiori riscoperte effettuate dal mezzosoprano capitolino (sebbene la fluorescente aria vivaldiana appartenga ad un alveo diverso), oltre che cantante anche musicista dotata di viva curiosità intellettuale, nonché dotta musicologa. È arduo dare risposta definitiva ed esauriente al quesito se l’essenza più profonda della Bartoli sia quella di fine ricamatrice di frasi dalla lunga arcata o di spericolata funambola su pirotecniche colorature. Ma, in realtà, quale che sia la sentenza, il risultato non cambia: entrambi gli aspetti sono componenti imprescindibili e tra loro inscindibili dello spirito più autentico del Barocco, di cui ella dà ulteriore prova di essere in totale e spregiudicato possesso.
La serata ha inizio con l’Ouverture da Meride e Selinunte di Nicola Porpora; i corni invero stonacchianti, cui viene qui attribuita considerevole preminenza, non rendono giustizia all’ispirata compagine zurighese “La scintilla”, che, nel suo complesso, fornisce una prova notevole sia sotto il profilo di ensemble di supporto d’una vocalità di strabordante carisma, sia come affiatato gruppo di musicisti altamente specializzati nel repertorio Sei-Settecentesco (assai intensa la resa dell’Ouverture n. 6 in sol minore di Francesco Maria Veracini, con i due flauti protagonisti in grande spolvero virtuosistico). La (in)cantatrice entra in scena con fiero piglio, indossando abiti virili appositamente confezionati da Agostino Cavalca, ridente come il sole tra il plauso festoso del proprio pubblico. Con gesto giocondo e sguardo complice sventola il mantello che l’avvolge, come di lì a poco farà con le note dell’aria di paragone “Come nave”. Il mezzosoprano si pone quindi volutamente in sottile bilico tra forma e contenuto, tra maschera e musica, evidenziando, pur nei limiti dell’esecuzione concertistica, quanto sia importante lo spirito eminentemente teatrale (nel senso etimologico del termine) dell’opera e paradossalmente – ma nemmeno troppo – insegnando, per mezzo di brani “museali” ripuliti in maniera sapiente dalla polvere dell’oblio, a non guardare al melodramma come ad un’anticaglia da fronteggiare con timore reverenziale e indifferenza, bensì a scandagliarne tutte le possibilità interattive.
Il programma prosegue con l’elegiaca “Chi non sente al mio dolore” di Riccardo Broschi, fratello del più celebre Carlo, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Farinelli, cui vennero addirittura attribuite doti taumaturgiche, se è vero che Filippo V di Spagna lo volle tutto per sé poiché la voce del castrato italiano era l’unico rimedio capace di combattere l’atavica melanconia del sovrano. Il brano è cesellato a fior di labbro, costruito su lunghissimi fiati e sulla carezza soffusa delle frasi legate, ognuna delle quali scivola dentro l’altra con vellutata fluidità di modo che il discorso musicale si dipani senza soluzione di continuità, complice il delicato accompagnamento orchestrale che compenetra l’interpretazione canora. “Lascia la spina” di Händel, ormai uno degli imprescindibili classici bartoliani, è al solito un capolavoro di condensazione emotiva in languidi, ma sempre pregnanti, sospiri; qui il complesso zurighese supera se stesso, suonando in punta d’archetto con la leggerezza di una piuma.
Tornando all’amletica domanda dell’inizio, ascoltando l’esecuzione dell’aria di Piacere dall’oratorio Il trionfo del tempo e del disinganno, “Qual farfalla” da Zenobia in Palmira di Leonardo Leo, “Misero pargoletto” da Demofoonte di Carl Heinrich Graun e “Quel buon pastor” da La morte di Abel di Antonio Caldara, tenderemmo a risolverci sul fatto che la cantante romana trovi la propria dimensione più congeniale in un fraseggio ampio e teneramente sofferto. Ma è pur vero che, dopo le folli girandole di “Cervo in bosco” da Medo di Leonardo Vinci (uno dei tanti esimi esponenti della Scuola Napoletana cui la doverosa riscoperta, appena agli inizi, sta già portando a risultati di sorprendente eccellenza: basti pensare allo stupendo Artaserse da poco pubblicato da Virgin Classics), di “Cadrò, ma qual si mira” da Berenice di Francesco Araia o di “Nobil onda” da Adelaide di Porpora, il vortice di lussureggianti agilità nel quale veniamo assorbiti indirizzerebbe il nostro parere in tutt’altra direzione. La grandezza della Bartoli risiede proprio nell’essere suprema maestra di entrambe le anime del Barocco vocale, insuperata da un lato nello smaterializzare la parola in musica e, dall’altro, nel rendere turgide e dense di significato le note. Testualmente ed espressivamente isolate “Usignolo sventurato”, da Siface del sempre ottimo Porpora, e “Chi vive amante” da Alessandro nelle Indie (uno dei libretti di Metastasio cui arrise più duratura fortuna, tanto che fu musicato ancora nel 1824 da Giovanni Pacini, il quale si valse per l’occasione del mitico tenore Andrea Nozzari nei panni del protagonista): pezzi di bravura ed imitativi al contempo, dall’andamento rapido e dal carattere che, nel continuo e reciproco richiamo tra voce e strumenti, sfiora un genuino senso del grottesco. Suggestivi effetti di eco di tal tipo sono riscontrabili anche nel primo bis concesso, “M’adora l’idol mio” da Teseo di Händel. Generosa anche nei fuori programma, la diva elargisce due ulteriori arie: “Sovente il sole” da Andromeda liberata di Vivaldi e l’attesissima “Son qual nave” da Artaserse di Broschi, che principia con un’elettrizzante messa di voce plurima.
Siamo di fronte ad un’Estasi di Santa Teresa del Bernini in musica, dove la trance mistica si fonde con l’ebbrezza sensuale: sacro e profano si profilano come due facce d’una stessa medaglia d’esaltata ed esaltante passione. Ancora una volta, al termine estremo del percorso di catarsi “sacrificale”, c’imbattiamo nella natura gianica del Barocco, che trova la sua più esplicita manifestazione proprio nell’ambiguità sessuale fornita dall’irripetibile fenomeno (per fortuna) degli evirati cantori. Fuochi d’artificio, dunque. Ma sempre regali, come quelli del Caro Sassone.
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Articolo intensissimo! Ci si immerge nell’atmosfera e nei suoni anche senza esserci stati.