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L’ensemble Tetraktys registra le opere di uno dei più noti manoscritti quattrocenteschi. Notazione visiva di grande impatto e difficoltà, ma nell’ascolto cosa cambia?
di Davide Daolmi
I l Codice Chantilly non è l’ultimo giallo di Dan Brown ambientato in una pasticceria, ma uno dei due più famosi manoscritti di ars subtilior (l’altro è il Codice di Modena) le cui musiche riempiono ora gli omonimi due Cd incisi dall’ensemble Tetraktys per la Olive Music. Il gruppo e l’etichetta fanno capo a Kees Boeke, fluatista olandese stabilitosi in Toscana per produrre olio extra vergine, commercializzato nelle stesse pagine dell’etichetta discografica.
Interferenze culinarie a parte, l’ars subtilior rimane un fenomeno affascinante della nostra musica del primo Quattrocento; al riguardo molto s’è detto e molto inutilmente. La verità è che tutto ciò che rimane sono solo i manoscritti calligrafati. Tali sillogi musicali, espressione delle corti filopapiste, in anni in cui i papi erano due, e poi addirittura tre, affermano con questi giochi intellettuali – sorta di sudoku medioevali – la predilezione di Dio per la loro fazione (in epoche evidentemente in cui Dio preferiva la materia grigia alle epidermidi su cui invece sembra essersi adagiato oggi).
Le ‘sottigliezze’ di queste musiche però non si sentono, si vedono: la notazione è policroma (nera, rossa, bianca) e fa subito pensare a roba molto complicata – cosa che è. Girovagando in rete vi sarà certo capitato d’imbattervi nella prima celebre pagina del Codice Chantilly: quella dove il pentagramma della voce superiore è curvato a forma di pettoruto wonderbra posato su righi disposti a triangolo rovesciato. Quest’ultimo inequivoco simbolo femminile – il triangolo – unito alla precedente ‘cunetta-dosso’, viene a formare un cuore, la cui rassicurante evocazione è sempre stata preferita a quest’altra mia, forse un po’ troppo ginocentrica. D’altra parte il suo autore, Baude Cordier (il cuore già nel nome), scrive espressamente che quella chanson è essa stessa un cuore d’innamorato offerto in dono alla sua bella (e «bonne»). Chi non ha mai scritto versi a forma di cuore? All’epoca non erano da meno: esiste anche un altro canzoniere, più tardo, cardiologicamente rifilato (ma aperto diventa un fiore), e detto appunto Codice Cordiforme – di cui potete portarvi a casa il facsimile lavorato a mano con poco meno di 3500 euro. Un affare. Mentre il Codice Chantilly è prevedibilmente rettangolare (del resto il suo facsimile non vale neanche 400 euro), e soprattutto la chanson di Cordier fu aggiunta in un secondo tempo – infatti il brano non è inciso nel doppio Cd di Tetraktys, quindi se lo volete ascoltare (e soprattutto guardare) dovete affidarvi a YouTube.
Come dicevo la subtilitas di quest’arte si vede ma non si sente. Le sue difficoltà sono interamente notazionali, cosa che certamente complica la vita agli interpreti, ma all’ascolto il brano non sembra più elaborato di un rondeaux trecentesco di Machaut o di un successivo mottetto fiammingo alla Ockeghem. Il compiacimento grafico dell’ars subtilior assomiglia un po’ allo sperimentalismo novecentesco, solo che con Ferneyhough te ne accorgi anche senza spartito che è roba da far venire il mal di testa, mentre con Zaccaria da Teramo – sarà il gap temporale, sarà l’inesperienza – la musica, tutto sommato, non è meglio o peggio di Landini, almeno se piace il genere quel tantino trapassato.
Se piace il genere… appunto. Il doppio Cd di Tetraktys – con brani di autori prevalentemente francesi, ma ci sono anche chansons attribuite a Filippotto da Caserta e Matteo da Perugia – spicca per più ragioni: rigore documentario, impasti timbrici, intonazione. Dirò di più: ad un confronto diretto con gli stessi brani incisi altrove (come non ricordare il precedente Codex Chantilly di Pérés, o il Medee fu degli Orlando Consort?) le chansons qui proposte sono certamente preferibili, per pulizia, profondità del suono, gusto del ritmo. Eppure questi due Cd sono ancora figli di un immaginario sonoro che relega la musica medioevale in un borderline alternativo, sorta di folk sofisticato ma pur sempre casalingo, fatto soprattutto per chi ama ascoltare musica fra sali da bagno al pino silvestre, o per chi vuole sentirsi più intelligente dell’adolescente che scarica tracce new age ma di cui condivide gli stessi gusti.
Far musica medioevale oggi non è proprio una passeggiata, perché il pubblico non c’è e quello che c’è non vuol essere contraddetto nelle sue inossidabili convinzioni maturate sui booklet di Cd diligentemente ordinati – quegli ex giovani che, ai tempi d’oro, avevano vissuto l’early music quale vaticinio iniziatico ed esaltante (altri preferivano i rave party), e che non hanno nulla da spartire con i nuovi utenti iPod, giudicati incapaci di costruire significati su suoni che, in fondo, è bene non siano ascoltati da orecchie non iniziate. Eppure il dubbio che questi suoni siano realmente muti, o che sappiano parlare solo in un contesto autoreferenziale, sorta di amplifon per riserve indiane, dovrebbe sorgere prepotente in chi ha a cuore il benessere della musica.
Se qualche scopo nel riproporre la musica dei secoli passati esiste, oltre a offrire una strada per capire la nostra storia, vorrei fosse quello di proporre un mondo musicale inedito, che crea sollecitazioni, idee, dubbi (che poi sono la tessa cosa delle idee). Non voglio ascoltare quasi due ore di musica e non saper poi distinguere un brano dall’altro, non riconoscere la drammaturgia che sottende alla scelta dei brani, pensare che questi antichi non sapessero far altro che strinare vielle e piangere per fanciulle assai poco espansive.
Il fascino della musica antica è nel non avere ‘verità storiche’ da assecondare, perché qualunque certezza sarà messa in dubbio l’anno prossimo s’una qualunque prestigiosa rivista di settore. E allora si abbia il coraggio di sperimentare. Georges Duby ipotizzò che il gregoriano fosse un canto di uomini d’arme mancati e che dovesse esprimere tutta l’aggressività di chi in fondo, per scelta o necessità, aveva convogliato le sue scariche ormonali nell’amore di Dio (purtroppo le teorie di Solesmes hanno avuto la meglio). Io vorrei dire – o forse mi piace credere – che questa musica ‘sottile’ lasciasse a bocca aperta i suoi primi ascoltatori. Non so come (e se anche lo sapessi, forse scoprirei che adottava strategie oggi prive di appeal). Ma il suo status era la straordinarietà, e come tale vorrei farla resuscitare: me ne faccio poco di un gradevole impasto di flauti, suoni fermi e qualche ronzio che-fa-tanto-medievale – perché al di là dell’ammirazione per la tecnica (argomento necessario ma non sufficiente), l’orecchio onesto, ahimè, è questo che coglie e subito se ne disinteressa.
Allora se questa musica doveva apparire inaudita, oggi deve almeno lasciare increduli di fronte all’inafferrabilità dei suoni, alla brutalità spettrale dei gravi, alla trasparenza delle quinte, alla ridda di percussioni le più diverse, che certo nessun codice – di Chantilly o meno – si preoccuperà di annotare, ma che nelle feste di corte dovevano contribuire a rendere le chansons, benché un po’ troppo cerebrali (o forse proprio per questo), gradite anche alla noia del principe e dei suoi ospiti.
Le abilità musicali per superare le difficoltà tecniche le abbiamo messe in campo, e Tetraktys ha dimostrato di aver armi efficaci – ricordo gli anni in cui si credeva l’ars subtilior ineseguibile. Ora si tratta di fermarsi, liberare il cervello e ciascuno, per quanto può – pubblico, interpreti, promotori – pretendere innanzitutto di stupirsi di nuovo.
Che ci vuole?
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