Considerazioni dal Festival internazionale di musica di Bologna


di Giampiero Cane


«L’edizione di Angelica al Teatro San Leonardo a Bologna, in via San Vitale, dà il segnale della ‘repertorizzazione’ – oops! Sorry – anche di questa iniziativa che negli anni scorsi era cresciuta – finché crebbe – cercando panorami inediti e prospettive non ancora sondate. Tra il 14 e il 16 maggio Angelica si è evoluta in una tre giorni stockhauseniana, senza musiche nuove naturalmente, ma con pagine che ormai sono nel repertorio della musica d’autore del Novecento: Stimmung, Inori, Die 7 Lieder der Tage o il segno di un nuovo classicismo, persino capace di comicità in quanto pronipote in qualche modo della grandezza di Weimar, un picco culturale tale per cui non poté che conseguirne Hitler. Può ciò suggerire che fosse conseguente, forse necessario, che, dopo il cucù di Berlusconi alla Merkel non si potesse, noi, hic et nunc, che precipitare nel campetto dei lupetti capitanato dal Renzi?

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La petitesse è da tempo all’ordine del giorno. Tornano le guerre di religione e i movimenti pauperistici, questi ultimi anche nell’arte, anche in musica. Il pauperismo del minimalismo/ripetitivismo è talmente povero che non s’accorge del fantastico antecedente di Escher – di cui una mostra assai ampia è ora in corso in Bologna, in un edificio di via Saragozza – ma forse nemmeno di quel ben più limpido e veramente popolare antecedente che tutti dobbiamo a Ravel. Nel corso dei primi concerti che Angelica ha prodotto finora si sono ascoltate musiche di una certa varietà, ma, a dire il vero, alquanto ancorate ai bei tempi andati: non Signorinella pallida, ma revival dei Grateful Dead o musiche di John Oswald degli anni Sessanta o novità che non manifestano nessun interesse a questa qualità, se si ritiene che lo sia. L’interessante forse non è più tale; il bello è quel che piace e l’estetica si cura nelle Spa (salus per aquam, m’han detto).

Tra il venerdì 8 maggio e domenica 10, si sono ascoltate alcune musiche della canadese Cassandra Miller. Non ha ancora quarant’anni, ma una bella sicurezza nella scrittura che è di certo gradevole, che vive di una concezione non arcaica della musica, ma che non ci sembra in grado di avere un impatto di rilievo nel concertismo contemporaneo. Dopo le furie martellanti del ripetitivismo reichian-glassiano, con lei siamo nella pace più soffice di un mondo contrappuntistico che non pare nemmeno tener conto di Bach, sebbene uno dei suoi pezzi s’intitoli About Bach, quanto piuttosto delle incantate rilassatezze del contrappunto rinascimentale, quello dei fantastici Gesualdo e Monteverdi (per ricordare due cuspidi), che su un comodino del Novecento o del Duemila non sono più sconvolgenti per nulla, ma ‘spaparanzati’.

Che dire? Che comunque è musica migliore di un indeterminato generico accumulo di energia senza forma espressiva, tanto per fare ‘casino’ – che, come si sa, è sinonimo di divertimento infantile? Probabilmente sì, se una noia soft è più accettabile di una prevaricazione di vuoto rumoroso. Della stessa Miller sì è poi ascoltato A Large House, per la cui realizzazione, gli strumentisti, più di venti, meno di trenta – due percussionisti e archi – erano stati disposti intorno al pubblico. È una musica che realizza una sola idea, un’immagine sonora. Si ascoltano dei glissati basati sul Do e i suoi armonici, che danno vita a un oggetto sonoro che, come lo rivolti, è sempre il medesimo, che non ha a che fare col tempo: è come un icosaedro anche con più di dodici vertici che gira e rigira su se stesso, senza sviluppare nulla. Come in Penderecki, la scrittura è semplicistica e alla ricerca di un esito avvolgente. Non ci sono indicazioni per il direttore e nemmeno per gli strumentisti. Il primo batte il tempo e a tratti marca un poco uno ‘strappo’; i secondi, cui nessuno ha probabilmente detto che i colpi d’arco potrebbero essere ad libitum (o, se preferite, ad libidinem) se ne stanno a parer mio appoggiati al gesto serioso e alquanto imborsito che caratterizza i dotti che ignorano la cultura.

Ma, poiché ritengo abituati fin dalla scuola alla sudditanza, ai desiderata del direttore, non imputeremmo loro i piumini leggeri di una musica che è irrimediabilmente consegnata a questi; nemmeno alla direzione; forse nemmeno a Cassandra Miller. Ci sembra anzi che sia lo specchio del non dialettico, dell’entusiasmo (per Adorno, criminale) che caratterizza un po’ tutto, dalle primarie, alle crociere dei volantini pubblicitari (dépliant) spassosamente distruttivi del David F. Wallace di Una cosa divertente che non farò mai più.

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Giampiero Cane

Giampiero Cane

Dagli anni Sessanta critico musicale per quotidiani e riviste, collabora ancora oggi con il manifesto. Ha insegnato nell’Università di Bologna, avendo la cattedra di Civiltà musicale afro americana, ma coprendo per sei anni anche l’insegnamento di Storia della musica moderna e contemporanea. È autore di alcuni libri, tra io quali si possono ricordare Tre deformazioni dolorose: Sade, Rossini, Leopardi, Canto nero (sul free jazz), MonkCage (sul Novecento musicale Usa), e Confusa-mente il Novecento.

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