Successo per l’opera di Leóš Janáček: ottimo connubio tra la direzione di Valčuha e la regìa di Hermanis


di Giampiero Cane foto Rocco Casaluci


GRANDI APPLAUSI HANNO CELEBRATO l’allestimento presentato al Comunale di Jenufa, la prima importante opera teatrale del compositore Leoš Janáček, un moravo cresciuto tra Brno, Lipsia, Praga e Vienna nella seconda metà dell’Ottocento, nella sostanza un autodidatta che affronta e risolve in modo personale i suoi problemi di scrittore.

Anche se, oltre Jenufa, hanno avuto allestimenti anche Káťa Kabanová, la Piccola volpe astuta e l’Affare Makropulos, nessuna può dirsi sia entrata nelle abitudini dell’opera italiana soprattutto perché, a quanto pare, il musicista compone utilizzando per la sua musica elementi del parlato popolare, i quali, naturalmente sfuggono, come a chi scrive, alla quasi totalità degli ascoltatori che ignorano il moravo. Trascurando questo fattore (che poté ben essere determinante nel primo Novecento quando questa Jenufa andò in scena, e con modesto esito), il resto può ormai essere colto con sufficiente facilità, quasi con naturalezza.

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Questo testo del teatro musicale incastona un atto di eredità in prevalenza wagneriana, quasi interamente assegnato a due voci femminili, tra altri due invece densi di azione e personaggi. Le scene che riguardano il primo e il terzo, in quest’allestimento cui concorrono i teatri La Monnaie di Bruxelles e Bolshoi di Mosca, sono di grande impatto. Disegnato alla maniera delle illustrazioni per le favole di Puškin e dei dipinti di Ivan Bilibin – anche scenografo per classici del teatro russo (Boris e Sadko di Rimskij-Korsakov) e decoratore della stazione Kazan di Mosca – il fondale ospita immagini che si muovono una sull’altra e decorazioni che incorniciano l’azione, sia disegnate e proiettate, che realizzate da un corpo di mimi sempre in movimento: femmine con gonne larghette, subito sotto il ginocchio, tenute tonde da tournure in metallo a far l’effetto del Cul de Paris, che è un altro nome del medesimo trucco o effetto, con cui disegnano coi propri corpi delle “greche” che attorniano il tutto. La scena ci dice “Panta rei” e il luogo narrato si trasforma in pagina illustrata che, ovviamente, allontana la possibile identificazione dello spettatore e dunque assume forza consolatoria di fronte ai truci misfatti che punteggiano l’azione. Diresti che hanno una funzione analoga a quella dei cori donizettiani nei suoi drammi, in Lucia per esempio, dove il suono in maggiore del commento all’azione calma nel destino la disperazione, morte e follia, del lamento in minore. Le scene e la regìa sono un gran lavoro sofisticato e raffinato di Alvis Hermanis, un lèttone che per l’Italia è forse al debutto. È protagonista di una lettura favolistica del dramma di Janáček definito comunemente verista, ma a modo suo, non certo come quello dei Pagliacci.

Se il I e il III atto sono più folk che non veristi, questi caratteri possono stare anche insieme nel bene e nel male. Il II ha una musica che parte sembra sentire la suggestione del Tell di Rossini, il finale, per evolvere naturalmente verso Wagner, senza però accostarsi alla sua retorica. Se mai si sente qualcosa di pucciniano, non molto, dal nero Tabarro o da Bohème, ma è tutto adeguato al delirio bigotto perbenista della matrigna di Jenufa, la quale per risolvere problemi di onorabilità e decoro decide di uccidere il figlio nato da pochissimi giorni dalla colpevole relazione con il solito inguaia-femmine che a sposarla non ci pensa proprio. Morto il bimbo, la vicenda sembrerebbe avviarsi al un rimediato lieto fine perché il fratello del seduttore fedifrago, anch’egli innamorato della fatal sciocchina, pei maneggi della matrigna sta conducendola all’altare quando il corpicino dell’innocente salta fuori e si scopre l’infanticidio. La festa di nozze, che proprio festa non sembrava a nessuno dato l’abito nero di Jenufa, si muta in un processo della comunità alle donne, ma la matrigna discolpa la figliastra. Sembrerebbe tutto debba finire in mestizia, ma il promesso sposo rinnova l’offerta d’amore e Jenufa cede alla speranza.

La messinscena ha ottimi interpreti in Angeles Gulin (la matrigna), in Briscein (il marito promesso), nella Dankova (Jenufa) e in tutti gli altri, ma l’insieme degli orchestrali, dei coristi e dei mimi è ciò che meglio ha meritato il felice applauso. La direzione d’orchestra di Juraj Valcuha, non ancora quarantenne è spedita, vigorosa, sicura e interamente convinta dell’interpretazione registica.

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Giampiero Cane

Giampiero Cane

Dagli anni Sessanta critico musicale per quotidiani e riviste, collabora ancora oggi con il manifesto. Ha insegnato nell’Università di Bologna, avendo la cattedra di Civiltà musicale afro americana, ma coprendo per sei anni anche l’insegnamento di Storia della musica moderna e contemporanea. È autore di alcuni libri, tra io quali si possono ricordare Tre deformazioni dolorose: Sade, Rossini, Leopardi, Canto nero (sul free jazz), MonkCage (sul Novecento musicale Usa), e Confusa-mente il Novecento.

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