Il Sole – 24 Ore ha elaborato i bilanci delle Fondazioni lirico-sinfoniche. Segnali positivi, tuttavia il debito complessivo è salito a 426 milioni nel 2014, contro i 392 del 2013
di Cesare Galla
A poco più di un anno dalla scadenza fissata dalla legge Bray per il risanamento delle Fondazioni lirico-sinfoniche (31 dicembre 2016: dopo, in caso negativo, incombe la liquidazione coatta), il quotidiano economico Il Sole – 24 ore ne ha “fotografato” i conti alla luce del bilancio 2014. È l’istantanea di un “paesaggio con rovine”.
Il rapporto fra valore e costi della produzione, testimone dell’efficacia con cui si perseguono i principi di “sana amministrazione” mostra anche qualche segnale confortante. Si può citare la risoluta diminuzione dei costi realizzata dall’Opera di Roma, l’anno scorso nell’occhio del ciclone mediatico, che dal 2013 al 2014 è passata da 63,7 milioni a 51,2; oppure il “Verdi” di Trieste, che ha ridotto i costi da 21 a 17,4 milioni. D’altro canto, però, si nota una grande circospezione nella creazione di valore, ovvero negli investimenti, che sono il termometro dell’incisività dell’azione di un teatro e della sua capacità di attirare il pubblico. Sembra quasi che il dibattito generale sulla crisi economica, con la sempre sottolineata necessità di (ri)mettere in moto gli investimenti come condizione del rilancio, nel mondo della lirica non abbia quasi trovato ascolto. Il che è la peggiore evidenza della scarsa fiducia nel “prodotto”. Cioè nell’opera.
La maggiore crescita, quanto a valore della produzione (comprendente gli introiti della biglietteria) si registra per due Fondazioni in gravi difficoltà passate o recenti come il Maggio di Firenze, che è salito da 28,9 a 32,4 milioni e soprattutto il San Carlo di Napoli, passato da 40,8 a 49,7 milioni. In questo caso, però, il costo delle produzione ha segnato una quasi corrispondente impennata (è salito a 48,1 milioni da 39), mentre a Firenze è rimasto fermo intorno ai 36 milioni. Ma certo, se il debito non si ferma e arriva a essere quasi il doppio del valore della produzione, mentre comunque i costi restano nettamente superiori ai ricavi (come a Firenze, che ha raggiunto quota 62 milioni, dopo che nel 2013 era già a 54,2), l’ottimismo diventa molto difficile.
E poi, il debito complessivo è in crescita inarrestabile: nel 2014 ha toccato i 426 milioni di euro, vale a dire ben più del doppio delle quote di Fus (e dei contributi straordinari) complessivamente assegnati l’anno scorso alle Fondazioni, che valgono poco meno di 190 milioni. Soltanto il Petruzzelli di Bari, il Lirico di Cagliari, il Massimo di Palermo e l’Accademia di Santa Cecilia sono riusciti nell’ardua impresa di ridurlo. Ci saranno anche motivi tecnici o contabili, come si afferma da parte della Fondazioni più virtuose, ma certo il dato non può essere minimizzato. Si tratta di un intero comparto che balla pericolosamente più o meno vicino all’orlo del precipizio, senza riuscire a trovare, se non parzialmente, le contromosse giuste.
L’andamento della Fondazione Arena di Verona, al proposito, è sintomatico. Lo sforzo di investimento per la stagione del centenario (2013) non ha trovato risultati adeguati nel valore della produzione, con uno sbilancio di oltre 6 milioni. Il deciso taglio ai costi dell’anno successivo (9,6 milioni) non ha impedito che anche i ricavi scendessero quasi in parallelo. Nello stesso arco di tempo, l’indebitamento è salito da 29,8 a 34,8 milioni, solo 10 milioni meno dal valore della produzione. E secondo gli esperti ci sono ben poche possibilità che il ricorso al Tar del Lazio contro la riduzione della quota Fus di circa 2 milioni abbia esito positivo. Lo scenario veronese sembra già segnato: robusti tagli al costo del personale, meno serate in Arena ma anche d’inverno, riduzione dei costi artistici, perfino la prospettiva di rinunciare o ridurre ai minimi termini la stagione operistica al chiuso, magari passando dal Filarmonico (contratto d’affitto già disdettato) al piccolo Ristori. E si parla di una Fondazione che non ha aderito al piano di risanamento della legge Bray. Non rischia la liquidazione coatta, rischia di diventare il simbolo del declino dell’opera in Italia, fuori dai grandi teatri storicamente propulsori (e tuttavia: oltre la Scala, quali?). Ma se un’impresa non crede nel suo prodotto, provare a sopravvivere è una scommessa perduta.