Il pianista russo ieri a Torino per l’Unione Musicale: una lezione di stile, tra Rameau, Mozart e Brahms
di Attilio Piovano
Grigory Sokolov – tra i massimi interpreti della tastiera oggi in carriera – è uno di quei pianisti che ogni volta che lo si riascolta, con enorme emozione, ti (ri)conquista all’istante: e lo fa con mezzi squisitamente musicali, senza ricorrere a facili e plateali espedienti (cui invece indulgono oggidì tanti pianisti divi). Lui no, anti divo per eccellenza, schivo e colto, ascetico, intimistico. Pochi oserebbero oggi inaugurare un proprio recital in una sala da 2000 posti – quella del Lingotto di Torino, ieri sera mercoledì 1° febbraio, per l’Unione Musicale a serie riunite – nel segno del settecentesco Rameau, sedendo allo Steinway gran coda d’ordinanza. Eppure fin dalle prime battute della «Suite in re maggiore» dal secondo volume delle «Pièces de clavecin» del 1724, Sokolov ha tenuto con il fiato sospeso il pubblico che quasi non osava fiatare, centellinando e distillando, concentratissimo, un’alchimia sopraffina di trilli e mordenti con una mano eccezionalmente nitida, cristallina, nei brani scorrevoli come «Les Niais de Sologne» o «La Joyeuse» o «Les Tourbillons», ma entrando poi tra le pieghe melanconiche dei pezzi più delicati e rarefatti. E così ne restituisce al meglio la nostalgia di fondo che li permea.
Sokolov accarezza i tasti dove occorre e sa far ruggire il pianoforte evocando ora suoni di corni, ora pastosità di violoncelli
Sokolov possiede un tocco di una leggerezza e di una precisione davvero uniche e rare. Ma, dove occorre, sfodera poi subito suoni corposi giocando con sobrietà di pedale, allo stesso tempo ponendosi lontano mille miglia dalle asfittiche monocromie di certe esecuzioni sedicenti filologiche, variando ritmi e sonorità con eleganza somma, ma anche con precisione millimetrica. Non una sbavatura, ogni nota il giusto peso ed il giusto colore, e l’effervescenza delle onomatopeiche frasi di Rameau emergeva chiarissima. Ma anche, merita sottolinearlo, quella mestizia di fondo che lo apparenta a Scarlatti, e Sokolov pareva intenzionalmente porre in evidenza analogie e differenze. Una vera lezione di stile: si sente uno sguardo partecipe e affettuoso verso questa musica che una lettura superficiale confinerebbe nell’ambito delle convenzioni, del manierismo settecentesco con lo stillicidio talora petulante di agréments e broderies alla lunga stucchevoli e ripetitivi. E invece Sokolov riesce a far (ri)vivere questa musica rendendola attuale o, più propriamente, elevandola al di sopra del tempo.
La lezione di stile continuava poi con la mozartiana «Sonata in la minore K 310» dal colore cupo, cinereo, scritta a Parigi in un momento davvero difficile, in prossimità della morte della madre che l’ancor giovane Wolfgang dovette fronteggiare senza cedere alla disperazione. Sokolov pone in luce la drammaticità perentoria dell’«Allegro maestoso» con le sue inesorabili frasi e le lancinanti dissonanze. La pagina è del 1778, poco più di mezzo secolo dalla «Suite» di Rameau: in realtà una distanza siderale di anni luce separa i due lavori. E Sokolov evidenzia dunque quella virile accettazione del fato, quell’ineluttabilità che domina sovrana nel «Rondò» appena interrotto da uno scorrere di lacrime nella delicata «Musetta» centrale che il pianista russo suona con estrema delicatezza, insinuando un raggio di luce consolatoria entro la drammatica pagina. Ma è un attimo, e subito riprende il colore già Sturm un Drang di questa composizione di vibrante emotività. Quanta grazia nell’«Andante» dai profili cantabili e dalla levigata allure in bilico tra rococò e stile galante, eseguito con sguardo retrospettivo verso un mondo ormai tramontato, un paradiso perduto e non più fruibile. Senza però smancerie o leziosaggini e con molta energia in quella inattesa sezione dove la gragnuola degli accordi ribattuti s’infittisce e sembra soffocare il lirismo della melodia, prima che il «Rondò» ci proietti in una dimensione di pathos senza eguali, e ci si sente come protesi sull’abisso, e ci si interroga sul senso della vita (e della morte). Ragioni di spazio impediscono di analizzare con agio l’interpretazione superba delle brahmsiane «Variazioni su un tema di Haendel» offerte in apertura della seconda parte. E mai scelta è parsa più appropriata.
Come un riannodare le fila col passato al quale Brahms, il progressista, per dirla con Schönberg, guardava con estrema tenerezza. E dunque ancora una lezione di stile. Ed è stata una festa per le orecchie e per il cuore ascoltare delicatezze estreme e passi dal suono pieno (ma mai aggressivo, del resto Sokolov ha un controllo incredibile grazie all’attacco del tasto, all’affondo ed al dosaggio del peso del braccio). Allineando variazioni ora informate a quella rude e nordica asprezza che di Brahms è una firma, non meno che la dolcezza affettuosa e cordiale di un sentire già prossimo a maniere viennesi. Sokolov accarezza i tasti dove occorre e sa far ruggire il pianoforte evocando ora suoni di corni, ora pastosità di violoncelli, facendosi esuberante e socievole nei tratti popolareschi all’ungherese, giù giù sino alla conclusiva «Fuga» dove ogni emersione del tema era chiara, perfettamente dosata, e la partitura appariva davanti agli occhi come su una lavagna luminosa, ancora una lezione di stile. E non importa che taluno rilevasse una certa ‘fallosità’: non significa nulla prendere alcune note false (e in genere curiosamente, lo sa chiunque abbia maneggiato un po’ la tastiera, accade in passi elementari, non negli impervi salti di ottava o nelle scorribande delle semicrome).
Da ultimo i sublimi «Tre Intermezzi op. 117», testimonianza estrema di un Brahms umbratile e autunnale. Mai il primo, una tenera berceuse dalla trasparente polifonia, è parso così intenso e melanconico, tenero e struggente: e dire che lo abbiamo ascoltato infinite volte da interpreti diversissimi. E se del secondo Sokolov ha ben colto il lato fantasioso, scopertamente divagante, dell’ultimo ha posto in luce la nuda, scabra austerità: dilatando ogni nota con un controllo timbrico di inarrivabile perfezione e infine lasciando risuonare a lungo gli ultimi addensati accordi. Peccato davvero che la copiosa nevicata abbia trattenuto una parte del pubblico, penalizzando una sala che meritava il gran completo. Ma chi c’era ha potuto godere ancora di vari bis: ancora Brahms (dalle «Fantasie op. 116» il «Capriccio n° 7»), poi Schumann («Klavierstücke op. 32, Gigue, Romanze, Fuguette»), e per chiudere il cerchio o, se si preferisce, la lezione di stile, riandando al punto di partenza, ancora Rameau («Tambourin» e «Le Rappel des Oiseaux»).
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