Trionfo del capolavoro operistico di Bernanos/Poulenc al Comunale di Bologna, con allestimento e interpreti già coperti di applausi a Parigi e Bruxelles
di Francesco Lora foto © Rocco Casaluci
Molti posti vuoti in sala, alla “prima” del 10 marzo: ma l’entusiastico passaparola ha fatto aumentare il pubblico di replica in replica; e se il ciclo di recite non si fosse concluso che alla quarta levata di sipario, appena cinque giorni dopo e senza nemmeno una pomeridiana, v’è da giurare che in biglietteria si sarebbe finiti alle mani pur di entrare in sala. Ecco, dopo la sconvolgente Bohème che ha inaugurato la stagione d’opera, un altro spettacolo che conferma la ritrovata salute artistica del Teatro Comunale di Bologna. Il titolo è Dialogues des Carmélites, capolavoro teatrale di Georges Bernanos sul quale è basato il capolavoro musicale di Francis Poulenc: testi tali da dar dipendenza allo spettatore, il quale si troverà per giorni a leggere e rileggere, ascoltare e riascoltare, meditando sui temi umani e divini di uno tra i più profondi esempi di teatro d’opera del Novecento; e testi tali da imporre obblighi all’interprete, il quale si troverà a dovere e volere dare il meglio di sé, consapevole che un tale lavoro lo riporta a scuola e che il trionfo è già messo in tasca dal genio degli autori.
Blindato nel successo anche l’allestimento con regìa di Olivier Py, scene e costumi di Pierre-André Weitz, e luci di Bertrand Killy: coperto di applausi nel 2013 al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi, premiato dalla critica musicale francese, ripreso con grande attesa alla Monnaie di Bruxelles nel 2017, nello scorso febbraio è tornato a commuovere il pubblico parigino. Vanta un inedito e capillare lavoro sulla parola e con gli attori, mutua o varia idee dall’ineludibile precedente di Robert Carsen, ha un punto debole nella sola conoscenza della vita monastica: mentre il testo letterario predica concetti di alto spessore teologico inquadrati nella caritas della clausura, si vedono suorine da réclame che scorrazzano amene all’aperto dei boschi onde accattivarsi facile simpatia. Ma il Comunale di Bologna ha anche importato in blocco gli interpreti scritturati a Parigi e Bruxelles: se da una parte ha così dato prova di modesta originalità artistica, dall’altra – ciò che più conta – ha procurato una lezione di prosodia francese, mediante una compagnia di tutti madrelingua. Un privilegio.
Soprattutto nell’arte di soppesare il verbum, tra mille inebrianti sfumature retoriche, espressive e fonetiche, oltre che nella condivisa disinvoltura scenica, consiste d’altra parte il valore di Hélène Guilmette come Blanche de la Force, Nicolas Cavallier come Marchese padre, Stanislas de Barbeyrac come Cavaliere fratello, Sylvie Brunet-Grupposo come Madame de Croissy, Sandrine Piau come Suor Constance e Loïc Félix come Cappellano. La lode si estende a Sophie Koch, come Mère Marie, nonostante la sempre più brusca frattura tra registri vocali, e a Marie-Adeline Henry, come Madame Lidoine, nonostante l’emissione vetrosa e una caratterizzazione insolitamente aspra (il compositore, che aveva sognato la Tebaldi, ebbe per prime interpreti la Gencer, la Crespin e la Sutherland). Tal quale anche il direttore, Jérémie Rhorer, con la sua lettura svelta, asciutta, trasparente, intenta a negare ogni residuo verista e a lasciare più tratto che colore; orchestra e coro erano però quelli bolognesi, sorprendentemente più elettrizzati di quelli ascoltati un mese prima a Parigi.
Bene ha fatto il teatro Comunale a presentare un’opera fondamentale del ‘900, rappresentata in prima assoluta alla Scala nel 1957 e per la prima volta a Bologna. Enucleare le singole performances dei cantanti sarebbe erroneo, perché si tratta di opera corale: a tutti va un plauso incondizionato a fronte di una partitura spesso impervia. E del tutto accettabile è la scenografia, ridotta al minimo, costituita da pannelli che scorrono, tutti dello stesso grigio che caratterizza l’abito delle monache; centrato è lo scorcio che si intravede di alberi che ricordano il mondo cui le monache hanno volontariamente rinunciato. Non tutto è perfetto: le sagome di compensato che dovrebbero ricordare gli ambienti ecclesiastici sono un po’ velleitarie (e in certi casi di difficile interpretazione) e l’abito del fratello di Blanche in occasione dell’ultimo saluto pare più quello di un commesso viaggiatore del ’900 che quello di un nobile settecentesco. Irritanti gli strafalcioni di ortografia e di latino dei sopratitoli. Bellissima invece la scena finale con le monache che ad una ad una scompaiono durante la recitazione del Salve Regina con lo sfondo di una notte stellata. In somma uno spettacolo di qualità ben al di sopra della media di quelli del teatro: che si possa ben sperare per il futuro?