di Ilaria Badino
DIANA DAMRAU, o della gioia di fare musica. Così potrebbe intitolarsi una biografia del soprano bavarese dai capelli colore del sole, che dalla sua terra natìa ha ereditato quell’esuberanza al luppolo che prima di lei è stata cifra distintiva di altri cantanti artisticamente cresciuti nelle regioni meridionali di lingua tedesca. Quell’effervescenza bionda, spumeggiante e fresca come un buon boccale di Augustiner, il cui tratto saliente risiede in uno slancio genuino, sincero, irresistibile. La Damrau è una di quei pochi artisti lirici davvero maiuscoli dei nostri giorni, il cui numero è possibile contare sulle dita di una sola mano. Quelli, per intenderci, per i quali vale la pena investire qualche soldino per seguirne da vicino la carriera. Inoltre, la diva teutonica è forse la sola nel panorama attuale assieme alla nostra Ceciliona Bartoli (verrebbe in mente anche la Dessay, non avesse dato il definitivo – pare – addio alla ribalta operistica) a sembrare di godersela un mondo sulle assi del palcoscenico: snocciola temibili colorature e si prodiga nell’emissione di fiati dalla miracolosa lunghezza per mezzo di un coinvolgimento talmente totalizzante da divenire contagioso. Da questa specie di gioiosa possessione da parte di Apollo (benché sarebbe meglio parlare, in questi casi, di Dioniso) nasce l’approccio quasi rapsodico che le novelle pizie offrono durante loro concerti, nei quali si ha l’impressione che esse avvicinino il brano per la prima volta tanto è lo stupore con cui vanno ad esso incontro, tante la vivacità con cui lo carpiscono e la spontanea immediatezza con cui v’improvvisano nuove soluzioni cadenzali.
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Non stupisce quindi che il pubblico genovese, negli ultimi anni divenuto assai pigro nei confronti delle proposte della stagione sinfonica targata Carlo Felice, sia accorso numeroso ad acclamare un’artista il cui nome fa raramente capolino nei cartelloni italiani. Certo, niente di paragonabile ai sold-out da poco registrati a Barcellona e a Firenze, ma fa piacere constatare una volta di più la veridicità dell’assioma secondo il quale, quando vengono chiamati in causa pezzi da novanta, la risposta da parte degli spettatori è positiva. È inoltre indubbio, però, che sarebbe stato preferibile un programma più omogeneo, maggiormente improntato al Belcanto ed all’arte della coloratura (grande assente il Mozart delle arie da concerto, per esempio), in cui la Damrau eccelle nonostante il recente irrobustimento della voce e la sempre più frequente preferenza accordata a ruoli più smaccatamente lirici che assecondino tale evoluzione.
Le ragioni della scelta di questo bouquet di arie e duetti, decisamente troppo variegato, sono probabilmente da ricondurre alla presenza di Nicolas Testé, basso francese di lei consorte, il cui repertorio non si sovrappone in maniera perfetta a quello della bionda diva. Intendiamoci: Monsieur Testé è dotato di possente voce dal timbro gradevole ed è pure un gran bell’uomo, il che non guasta. Ma, egoisticamente, avremmo preferito un concerto total-Damrau con solo qualche capatina del marito, magari a farle da contraltare in qualche duetto realmente significativo: sulla scorta di queste riflessioni rimane un mistero il motivo per il quale non sia stata proposta la scena «O amato zio, o mio secondo padre!» dai Puritani, dato che i due si cimenteranno nell’intera opera al Real di Madrid tra meno di venti giorni.
Sembra poi evidente che la selezione di arie per basso – criteri storico-musicali a prescindere – non sia stata delle migliori: se Testé soffre l’ascesa all’acuto già nella Calunnia rossiniana, davvero troppo spinta risulta per lui la tessitura di «Le veau d’or» dal Faust, in cui la concitazione da sabba danzante rende assai arduo il mantenersi immacolati nell’emissione. Poco giustificabile, infine, l’inserimento nel programma del primo intervento di Ferrando che, secondo il parere di chi scrive, già di per sé non è felicemente estraibile dal contesto da cui proviene (la Parte I del Trovatore, per i novizi); se, per di più, viene eletto tra infiniti altri brani benché l’interprete non sia proprio un fulmine di guerra nell’esecuzione di trilli e di quartine, tale operazione diventa del tutto inspiegabile.
Ma concentriamoci sulla prova del soprano. Si esordisce con «Una voce poco fa» che, in nome dell’euforia bassotedesca di cui si è prima scritto (e anche di gravi un poco cavi, spesso soverchiati da un’orchestra del Carlo Felice guidata da un Francesco Ivan Ciampa non molto rispettoso degli equilibri tra voce e massa strumentale), riporta alla mente quell’Edita Gruberová che proprio con Il barbiere di Siviglia debuttò ufficialmente nel 1968 e di cui la Damrau si pone come l’erede più accreditata. Le battute finali la vedono, scatenata, mettere in evidenza la piccantezza della sivigliana Rosina piroettando attorno alla sua gonna rossa a doppia balza ed arcuando sinuosamente le braccia a mo’ di provetta flamenguera. Il pubblico è già rapito, inebriato, felice.
In «Je veux vivre» s’apprezzano alcuni rallentamenti insoliti, simbolo degli indugi del cuore di una Juliette meno sprovveduta del solito, che fanno intendere quanto la protagonista della serata sia maestra nell’arte (o nella scienza?) dell’introspezione psicologica: che significato possono assumere quelle oasi pensierose di fraseggio chiaroscurato se non quello del presagio del tragico destino che attende la giovane veronese? È dunque il turno della celebre Gavotte della Manon massenetiana, che s’attesta come un capolavoro di civetteria, più sfacciata che languida: la Damrau giochicchia con una stola, così come con respiri, trilli, occhiatine, per dare vita al suo personale, trepidantissimo inno alla joie de vivre. Nel Bolero dai Vespri siciliani essa dimostra una volta di più di essere fraseggiatrice ardente, come quando unisce per mezzo di un fiato infinito le due frasi «… mercè del don, ah! sì! O caro sogno…».
Peccato per l’assenza della puntatura al Mi naturale sovracuto, che la Damrau degli esordi non avrebbe certo lesinato, ma l’intensità dell’interpretazione ci fa perdonare la mancata elargizione della ciliegina su una torta già squisita. «Venerabile, o padre, è il tuo sembiante… Lo sguardo avea degli angeli» dai Masnadieri ci è porta a fior di labbro, con quella stessa soavità che ritroviamo più tardi in «Ah, non credea mirarti» mista alla mestizia trasognata e quasi ultraterrena che solo una sonnambula, per l’appunto, può esprimere. Lady DD si forma il proprio «ciel d’amor» calcando all’inverosimile la doppia “r” di «terra» attingendo alla sorgente della sua euforica trepidazione. E va così incontro ad un meritato trionfo.
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