Anniversario • Nasceva a Napoli il 25 febbraio 1873 il leggendario tenore
di Ilaria Badino
Poche personalità della ribalta operistica hanno ricevuto il dono di irradiare un’allure tanto potente di mito – in bilico tra il divino ed il popolare, ma comunque assoluto – come Enrico Caruso. Irresistibili ingredienti hanno sin dall’inizio contraddistinto la sua vita, che continua ad affascinare perché incredibilmente romanzesca: nato diciottesimo di ventun figli (quasi tutti morti in fasce), provvisto dalla Natura di un talento eccezionale, ripudiato dalla natìa Napoli dopo una serie di recite dell’Elisir d’amore (questo punto della sua biografia ha sempre lasciato adito a dubbi: pare, infatti, che fosse Caruso a non sentirsi propheta in patria, quando invece il San Carlo gli avrebbe tributato un buon successo), star assoluta del Metropolitan, dove s’esibì in più di ottocento recite. Perdipiù, entrò nelle grazie dei maggiori esponenti della Giovane Scuola, che scrissero appositamente per lui, tra le altre, le parti di Federico nell’Arlesiana e di Maurizio di Sassonia in Adriana Lecouvreur (Cilea), di Loris Ipanov in Fedora (Giordano) e di Dick Johnson nella Fanciulla del West (Puccini), quest’ultima creata proprio sulle assi del palcoscenico del tanto amato MET.
La portata innovativa di Caruso non è da ricercarsi soltanto nella vocalità, ma anche nella sua intuizione riguardo le potenzialità “globalizzanti” del disco: fu il primo cantante a vendere più di un milione di copie e, tramite tale supporto, sdoganò la canzone napoletana. Core ‘n mano, è vero, ma anche «Core ‘ngrato»: il brano di Alessandro Sisca e di Salvatore Cardillo si confaceva benissimo al suo sfortunato legame con Ada Giachetti, da cui ebbe due figli ma che troncò il sogno d’amore (già sufficientemente incrinato a causa d’Enrico, va riconosciuto) fuggendo con il loro autista. E se nella capitale partenopea il tenore non poté o non volle vivere, il destino, ironico talvolta nel proporre alcune coincidenze, decise per lui: lì dov’era nato avrebbe dovuto concludere il proprio, breve ma glorioso, cammino. A Napoli, cui era stretto da un vincolo d’amore e morte, morte fu: recrudescenza di una pleurite infetta. Come Ettore Bastianini, un altro grande della lirica il cui fiore sarebbe sbocciato da lì a qualche decennio – stroncato da un cancro alla faringe –, fu tradito da un organo di quell’apparato respiratorio che lo rese grande. Dappertutto e per sempre. Perché, se per il celebre pezzo «Tutt’ è passato e nun ‘nce pienze cchiù», per noi, a centoquarant’anni dalla nascita e a novantadue dalla morte, Caruso è memoria storica indelebile.