di Attilio Piovano foto © Pamela Raith
Strepito successo, la sera dello scorso venerdì 4 maggio, al Teatro Regio di Torino, per Evita, l’assai celebre e fascinoso musical incentrato sulla figura di Evita Perón (prima esecuzione assoluta della versione per orchestra sinfonica, orchestrazioni di Andrew Llyod Webber e David Cullen, produzione di Bill Kenwright in accordo con The Really useful Group). Ed è un risultato strabiliante, considerato un certo qual conservatorismo dei melomani avvezzi agli standard della lirica. Andrew Llyod Webber, il mago delle colonne sonore, seppe confezionare – nell’ormai lontano 1978 – una partitura di tutto rispetto volta a delineare ascesa e declino (verrebbe da dire anabasi e catabasi) del discusso personaggio: rampante e determinata ragazza nata Duarte che, dalla rurale provincia dell’Argentina giunge quindicenne nella capitale Buenos Aires a metà Anni Trenta del Novecento. Ha un sogno nel cassetto: condurre una vita brillante e, soprattutto, diventare attrice. In realtà, dopo essersi innamorata ed aver poi aver lasciato il mediocre cantante di tango Magaldi, nel 1944, in circostanze del tutto fortuite, incontra Perón ad un concerto di beneficenza per le vittime di un terremoto. Quindi, rivelandosi determinante per l’ascesa al potere, soppiantata l’amante di Perón che nel ’46 vince le elezioni, assurge in breve a vera e propria icona popolare, osannata dalle folle, salvo tramontare con l’inesorabile malattia e la morte precoce nel ’52: un po’ santa e un po’ puttana, secondo una ‘vulgata’ un po’ sommaria, certo, ma in fondo veritiera.
E il musical, coi suoi ritmi serrati e i suoi tempi cinematografici (specie il primo atto che si apre col funerale, cui segue il flash back della breve esistenza di Eva), grazie anche al libretto di Tim Rice, diretto, paratattico e pop, coglie bene questo oscillare del giudizio. Una partitura dove c’è spazio per rock e ritmi sudamericani (filtrati attraverso la conoscenza di un Milhaud), spesso con vistoso gap tra affermazioni tragiche e situazioni drammaturgicamente tese, nel libretto, e andamento scoppiettante del substrato sonoro, ma anche allusioni a Puccini come a Britten e Stravinskij (i più raffinati vi colgono addirittura assonanze da Borodin e Dvořák) ed a certe atmosfere graffianti à la manière di Piazzolla (per la cruda scena degli Ufficiali del G.O.U., «C’è chi non ha regole»).
Il primo atto – dopo l’atmosfera kitsch delle esequie (con tanto di salmodiante Salve Regina, l’antica antifona mariana il cui testo viene manipolato ad arte, sicché «at te clamamus exules filii Hevae» vira in un esplicito Eva) – fila via veloce, col suo impianto per così dire corale ed il vero proprio climax per l’apoteosi del finale d’atto; più intimista e tragico il secondo che si apre con la scena dell’investitura e la raggiante, bellissima Evita che si affaccia al balcone della Casa Rosada e canta la celeberrima «Don’t cry for me Argentina» (portata al successo da Madonna nel fortunato film omonimo, vero pendant del musical), canzone destinata a ricomparire poi ancora nelle toccanti scene finali con lo struggente discorso radiofonico, quasi macabro contraltare.
La regia di Bob Tomson e Bill Kenwright si rivela corretta (spigliate e molto vivaci le coreografie di Bill Deamer), ottime le luci di Tim Oliver a sottolineare con fulminea rapidità i cambi di scena. Matthew Wright firma scene e costumi funzionali ed appropriati: suggestiva l’idea di evocare il viaggio intercontinentale di Evita, o più propriamente il suo tour europeo, con una semplice scaletta di aereo, laterale al palcoscenico, ma con tanto di tappeto rosso e spot ad evidenziarla. Suggestivo altresì il gioco simbolico e davvero d’effetto degli specchi nella scena che precede il viaggio stesso in Europa, a scopi propagandistici, con Eva che si avvale di raffinati consulenti di moda, per ‘creare’ ad hoc la propria immagine pubblica.
Successo personale per Madalena Alberto (Evita), apprezzata sia sul piano vocale, nonostante qualche asprezza (ma si sa le voci microfonate di un musical richiedono criteri di giudizio dissimili rispetto ai cantanti lirici), sia pure a livello attoriale; altresì apprezzato Gian Marco Schiaretti (nel ruolo del Che), bene il Perón di Jeremy Secomb ed il Magaldi di Oscar Balmaseda (un doveroso cenno a Cristina Hoey, l’amante, assai apprezzata nel doloroso momento del commiato, o più propriamente del benservito, che si tramuta in una sorta di dolce e nostalgica oasi lirica). Validi nel complesso i comprimari, talmente numerosi da rendere impossibile la citazione di ognuno. Buona la performance dell’Orchestra del Regio, diretta da David Steadman, benché tendesse inevitabilmente ad appiattire le dinamiche sul forte (coro di voci bianche del Regio e del Conservatorio di Torino, direttore Claudio Fenoglio). Sold out nel corso delle ben otto recite.