di Luca Chierici
Era da tempo che non si ascoltava Francesco Libetta come protagonista di un lungo e composito recital che ricordava i fasti degli anni ’90, in una Milano da bere elettrizzata per la sua proposta degli Studi di Chopin-Godowsky o di certo Alkan, sempre per le Serate Musicali. Le sale erano molto più piene di quanto non lo siano oggi, il che vuol dire che qualcosa non funziona nell’organizzazione e nella fruizione dei concerti di musica “colta”. Oppure possiamo avanzare l’ipotesi secondo la quale il fenomeno sia anche colpa del marketing, che crea interessi mirati e che impoverisce le scelte personali degli spettatori: non si va più ai concerti come frutto di una ricerca in proprio sul repertorio e sulla validità effettiva degli artisti, bensì grazie ai suggerimenti che provengono da una campagna pubblicitaria ben congegnata o da una conferenza stampa che punta sul sensazionale.
Libetta è da un certo punto di vista molto cambiato negli anni e la sua straordinaria manualità, oggi al servizio completo della musica, si è fatta più granitica (con un evidente vantaggio sulla qualità del suono) e accompagna scelte sempre molto mirate e anticonvenzionali. L’impaginato del programma poteva essere letto, ad esempio, come percorso di continuità tra gli autori considerati: Haendel, rappresentato da una Suite breve ma affascinante, era compositore amatissimo da Beethoven, del quale si è ascoltata la Sonata op. 90, e trascritto anche da Czerny; quest’ultimo compariva con una scelta di Studi dall’opera 740 ed era stato a propria volta allievo di Beethoven e poi maestro di Liszt, presente attraverso un’ampio spettro di trascrizioni e pezzi originali.
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Con Haendel Libetta ha evocato le sonorità di Shura Cherkassky, che nel 1995 aveva eseguito splendidamente per le Serate una Suite in re minore del caro Sassone, e ci ha indicato come la musica barocca possa essere ancora proposta al pianoforte: tutto dipende dal suono che si cava dallo strumento, che non necessariamente deve assomigliare a un cembalo ma che può incantare l’ascoltatore attraverso un timbro che si colloca in una specie di territorio neutrale, al di fuori del tempo. La lettura della Sonata beethoveniana era molto lontana dai parametri che regolano la maggior parte delle interpretazioni di questo lavoro piuttosto enigmatico e insisteva sul lato sentimentale del secondo movimento senza tener conto di un inquadramento strutturale, che si traduce anche in una scelta di tempo più spedito, tradizionalmente associato a ogni pagina del compositore, come se ai più non fosse possibile ammettere per Beethoven un solo momento di abbandono, di perdita del controllo delle emozioni. La proposta czerniana data per Libetta a diversi anni orsono – il pianista aveva inciso l’integrale dei cinquanta studi dell’op. 740 – ed è andata a pescare alcuni esempi nel mare di centinaia e centinaia di lavori di questo tipo che alcuni studiosi hanno voluto per forza di cose inquadrare in una sorta di produzione in serie, associata all’epoca dello sviluppo industriale nell’Europa del periodo che precede la metà del secolo diciannovesimo.
È la visione di uno Czerny (e con lui decine di altri pianisti-compositori) che alimenta con la sua vastissima produzione una specie di catena di montaggio di sempre nuovi strumenti atti a popolare le case della nuova borghesia. E che allo stesso tempo fornisce materiale di studio allo scopo di sciogliere dita maldestre in vista di sempre nuove conquiste alla tastiera. In realtà, e Libetta l’ha chiaramente dimostrato, Czerny non è solo questo e il pianista salentino ha in questo caso puntato su certi effetti che scaturiscono dalla scelta di velocità di esecuzione molto elevate, del resto previste dai metronomi originali. La differenza tra i musicisti dell’epoca classica o pre-romantica – Czerny non può collocarsi altrove, anche se fece in tempo persino a scrivere un pezzo per violino e pianoforte sulla Traviata (!) – e quelli delle generazioni successive sta anche nel fatto che spartiti molto complessi come la Hammerklavier possono essere eseguiti a velocità molto più moderate senza che si perda il senso musicale della composizione. Se si prova ad eseguire lentamente una pagina virtuosistica di Rachmaninov, ad esempio, o un complicato passaggio di Reger, persino un Preludio veloce di Debussy, ben poco rimane del messaggio così come è stato pensato in origine.
Libetta ha proseguito il suo programma affidandosi interamente a Liszt, visto attraverso differenti prospettive. Più che la azzardatissima sesta Rapsodia ungherese ci sono sembrati interessanti una delle trascrizioni tratte da Mercadante (la Serenata del marinaio) e la prima delle Valses oubliées, pagine tra l’altro collegate casualmente tra loro attraverso un identico incipit ritmico-melodico. Bellissimi risultati ha ottenuto il pianista presentando le tre trascrizioni dal Lohengrin (e qui la memoria è andata indietro nel tempo ai programmi che venivano presentati in Conservatorio da Michele Campanella, artista cui dobbiamo essere tutti riconoscenti) e nei bis, invocati dal pubblico sempre più entusiasta. In questo finale fuori programma si è goduto di una esecuzione stratosferica dello “Studio in forma di Valzer” di Saint-Saëns, sulla scìa dei documenti storici che possiamo ancora oggi ascoltare dalle mani di Alfred Cortot. Libetta è l’unico pianista al mondo in grado di imitare volutamente la meccanicità di certe esecuzioni incise su rullo di pianola, cosa che egli ha chiaramente fatto sia in questo studio fantastico che in uno degli esempi czerniani, dove il prototipo su rullo era dovuto alle mani di Josef Lhévinne.
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