di Francesco Lora
Giovanna d’Arco (1845) ha un posto d’onore nel catalogo di Giuseppe Verdi, che riteneva questa sua settima opera la migliore da lui composta fino ad allora, e ha un ruolo importante anche nella carriera di Daniele Gatti, che con essa ha fatto il debutto assoluto nel teatro lirico, che l’ha ripresa con convinzione nel 1996 al Covent Garden di Londra e che l’ha infine rivoluta, per quattro recite dal 17 al 24 ottobre, al Teatro dell’Opera di Roma.
L’ha concertata con orchestra e coro in vena di entusiastico sfoggio tecnico, e alla maniera dei direttori di primo rango per schiettezza pratica e lucidità intellettuale: esecuzione integrale, reverenza nel restituire le sottigliezze della strumentazione e attenzione alle voci, in modo tale che ciascun cantante dia il meglio di sé senza licenza di pigrizia; dei cosiddetti «anni di galera» verdiani rimangono così gli aspetti stilistici scabri e svelti per loro natura, mentre fuori dalla porta è lasciata la tradizione che tratta il testo con sufficienza, lo banalizza e bistratta. Una lettura nondimeno personale e senza velleità filologiche: il fraseggio si fa tanto più scandito ed energico in uno stacco di tempi piuttosto largo e poderoso, e gli strumenti non si sfogano ciascuno nel proprio timbro ma convergono in una sola omogenea pasta.
La bacchetta è protagonista anche drammatica in uno spettacolo dove, al contrario, timido è il nuovo allestimento con sobria regìa di Davide Livermore, maldestra coreografia del medesimo, astratte scene fisse di Giò Forma animate dagli arcani video di D-Wok, caliginosi costumi di Anna Verde tagliati dalle fredde luci di Antonio Castro. Al cospetto di un libretto amabilmente bislacco, avventuroso e povero di analisi psicologica, ricco di cause senza effetto e di effetti senza causa, l’idea registica sembra immobilizzarsi in stile oratoriale, e inscena in primo luogo la compresenza di immanenza terrena e trascendenza divina: la Pulzella d’Orléans, dunque, recita la propria eroica, insanguinata agonia mentre un suo duplicato scenico si avvia beato verso il Cielo. Questa parte di primadonna è del resto micidiale, musicalmente, per il suo doppio consistere in estatiche oasi liriche e passi a voce tesa, piena, decisa, esposta; benvenuto è l’esordio, in essa, del soprano Nino Machaidze: ha alle spalle una solida esperienza da belcantista per venire a capo dei momenti ornati ed elegiaci, e col suo registro acuto – vetrosetto – evoca incisivamente l’inquietudine di Giovanna, persin meglio di quanto le riesca con l’innocenza di talune figure rossiniane o belliniane.
Come Carlo VII, Francesco Meli eccelle qui non meno che nel 2015 a Milano: vanta la stessa trascinante fragranza di timbro e porgere, ma le sfumature si sono moltiplicate e, soprattutto, il bagaglio tecnico va affrancandosi dalle ingenuità croniche. Lo si era già notato nell’ultima Traviata a Firenze: il canto si affida ora al piano senza l’infondato timore di perdere in vividezza e risonanza; acquisisce per contro eleganza, controllo, morbidezza ed espressione; l’inutile sforzo che prima accompagnava il forte, facendolo detonare più nel corpo del cantante che nello spazio della sala, si è nel contempo mutato in espansione facile, naturale, proiettata: il melomane ne gongola. Gran signore della corda baritonale si conserva poi Roberto Frontali, con quei suoi mezzi accigliati, ruvidi e introversi che veicolano tuttavia mezzetinte a volontà, e restituiscono insomma con immediatezza il carattere insieme semplice e contorto di Giacomo. Lussuoso al Costanzi, come già alla Scala, è infine il Talbot di Dmitry Beloselskiy: stupisce però che questo basso avvezzo a Zaccaria, Filippo II e Jacopo Fiesco, se ingaggiato per una parte di contorno anziché principale, tenda a passare inosservato anziché ostentare le proprie facoltà a maggior meraviglia del pubblico.