di Gianluigi Mattietti
Witten, piccolo centro della Ruhr, quasi ai confini con l’Olanda, ospita dal 1969 un’importante rassegna, i Wittener Tage für neue Kammermusik, che ha tenuto a battesimo numerosi capolavori della musica del nostro tempo e che ha consolidato la propria fama grazie alla collaborazione con la radio del Westdeutschen Rundfunk, e alla guida artistica di Harry Vogt (responsabile per la Nuova Musica della WDR di Colonia). Il programma di quest’anno (edizione numero 49), compresso come al solito in tre giorni fitti di concerti, comprendeva più di 20 prime mondiali e un ampio ritratto dedicato a Nicolaus Huber, decano della musica contemporanea in Germania, nato a Passau nel 1939. Influenzato dalla ricerca vocale di Schnebel, dagli esperimenti mutlimediali di Stockhausen, dall’impegno politico di Nono, ha creato un linguaggio musicale radicale, impregnato di archetipi della musica popolare, interessato all’etimologia dei suoni e dei ritmi, ispirato al concetto dell’imprevedibilità aurale (ascoltare la musica è come «sostare di fronte a un paesaggio che appare sempre lo stesso ma che cambia incessantemente»).
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Quella di Huber è sempre una musica aspra, enigmatica, spesso autoironica ed estrema, come hanno dimostrato i numerosi lavori solistici eseguiti a Witten, a partire dalla laconica Musik für Violine alleine (1962), come uno studio su singoli parametri del suono, basato su pochi suoni tenuti (violino Jagdish Mistry). Presente (1979) per trombone, Presente, prendeva spunto da “luoghi comuni”, cliché e “banalità musicali”, fanfare, spunti jazz, frammenti di una canzone («Moorsoldaten»), coordinati in una struttura ritmica rigorosa, costruita con brevi frasi ritmiche e spigolose, quasi parlate (trombone Uwe Dierksen). … in die Stille (1998) per violoncello era un pezzo lentissimo, fatto di linee impalpabili, venate di lirismo, come «fluttuanti presenze di un quasi-silenzio» (altro che Sciarrino!), immaginate dal compositore anche come critica ai mezzi di riproduzione della musica (violoncello Michael Kasper). doux et scintillant (2004) per tromba impiegava modelli della meccanica quantistica, per creare una polifonia latente, virtuale, puntinista, con una forma frammentaria, fatta di microepisodi, e una grande varietà di timrbi ottenuta con l’impiego di diverse sordine (tromba Paul Hübner). Erosfragmente (2012) era destinato a un percussionista (Rainer Römer) alle prese con 18 capane tibetane e un pianoforte giocattolo, per generare un ordito rarefatto, in continua evoluzione, dalle armonie sempre cangianti.
Mit etwas Extremismus (1991) eseguito dall’Ensemble Modern, è stato pensato da Huber come un omaggio a Cage («Con un po’ di estremismo» è una citazione da Cage e il riferimento esplicito è a Variations II): un pezzo che mescolava registrazioni della musica dello stesso Huber (su cinque registratori a cassetta), riferimenti alla Quinta Sonata di Skrjabin, come una parodia della sua “coda muscolare”, con le espressioni estatiche «con estasi, con emozione, con espressione», ripetute e urlate dai musicisti (che agivano anche in scena, trascinando strumenti, aprendo e chiudendo coperchi, soffiando, facendo gesti da indemoniati). Nel concerto finale è stata anche eseguita una novità assoluta di Huber, per orchestra da camera, intitolata Split Brain mit vorausgehendem Solo-Shrug (»emotionale Reste«): prendendo spunto dai risultati di una ricerca neurologica, e dalla divisione del cervello in due emisferi, con relative funzioni e compiti specifici nel controllo dei nostri movimenti, il compositore tedesco ha creato un pezzo espressionistico, lacerante, che alternava flebili suoni sulla cordiera del pianoforte, e masse violente, che si sfibravano, lasciando pochi filamenti misteriosi, in un sottile gioco di contrasti ben evidenziato dal giovane direttore spagnolo Pablo Rus Broseta (classe 1983) sul podio della WDR Sinfonieorchester Köln.
Nello stesso concerto è stata presentato un nuovo lavoro di Philippe Manoury, Passages, per clarinetto e orchestra, che fondeva in maniera davvero seducente il gioco coloristico, fluido, proteiforme delle trame orchestrali, con i disegni brillanti ed estroversi del solista (bravissimo Thorsten Johanns), ondeggianti, sagomati da grandi escursioni intervallari, riverberati da due clarinetti “in eco”, ai lati del palcoscenico. Molto diversi i due nuovi lavori diretti da Brad Lubman, sul podio dell’Ensemble Modern, scritti da due compositori emergenti della nuova “Generazione dell’Ottanta”. Die Häutung des Himmels del tedesco Martin Grütter (1983: allievo Hanspeter Kyburz e Wolfgang Heiniger) era un lavoro per sette strumenti, basato su un riale frammentato e stridente, poco amalgamato, con squarci jazzy, echi di natura, esplosioni quasi sinfoniche. Più riuscito, e assai più raffinato, PolychROME dell’americano Christopher Trapani (1980: allievo di Julian Anderson, Tristan Murail, Georg Friedrich Haas), pezzo coloristico e pieno di energia, ispirato alla città di Roma (dove i compositore attualmente vive), che intendeva tradurre in suoni «le sfumature di ocra al cambiare della luce del sole, le sottili variazioni di stati d’animo suggerite dalla luce filtra attraverso strade, vicoli e giardini»: il risultato era una trama secca, asciutta, ma piena di punteggiature risonati (come gli accordi del vibrafono), di ritmi complessi, di blocchi di suono che generavano un bel gioco caleidoscopio di colori, di venature quasi cantabili (di tromba con sordina, clarinetto basso), che rimanevano però sempre sottotraccia, in controluce, che si ascoltavano come in lontananza. Il tutto tenuto insieme da un’architettura fatta di strutture periodiche e nitidi campi armonici.
Gran parte della rassegna era poi dedicata al quartetto d’archi, con la partecipazioni di due gruppi molto esperti di repertorio contemporaneo il Quartetto Arditti e il newyorkese JACK Quartet, che celebrava quest’anno il suo decimo anniversario. L’Arditti ha eseguito due brani molto movimentati e dinamici: il terzo Quartetto di Harrison Birtwistle, The Silk House Sequences, articolato in 19 episodi, costruito su movenze danzanti, ostinati, ingranaggi ritmici infernali che generavano una materia incandescente; un nuovo quartetto di Philippe Hurel, intitolato Entre les lignes, dalle trame nervosissime, scattanti, sempre sature, animate da fitti dialoghi strumentali e da figure cinetiche che sembravano in uno stato di perenne accelerazione. L’Arditti, insieme all’Ensemble Modern, ha eseguito anche la prima mondiale del ciclo completo di Umbration, The Tye Cycle di Brian Ferneyhough, “suite” di undici pezzi per organici diversi, iniziata nel 1999, che faceva riferimento alla tradizione del “broken consort” del barocco inglese, e alla musica di un compositore rinascimentale come Christopher Tye: ciclo molto diseguale con con alcuni momenti davvero caotici, altri molto ispirati, come la combinazione tra piano e campanacci in Laudes Deo, la linea impalpabile ed espressiva di In Nomine per violoncello solo, la trama delicata e pulviscolare di Dum transisset (Shadows) per quartetto, il velocissimo e frenetico Dum Transisset (Contrafacta).
Il Jack Quartet ha presentato due interessanti novità di Timothy McCormack (1984) e di Oscar Bianchi (1975). Your Body is a Volume del compositore americano era un pezzo radicale, estremo, interamente basato su rumoristici e prolungati sfregamenti delle corde, ma era molto interessante perché dentro questa materia densa e satura si coglievano lievi fluttuazioni dinamiche e melodiche. Non rinunciava a un po’ di rumorismo nemmeno Oscar Bianchi in Pathos of Distance, che affidava a ciascun musicista un Waldteufel (tamburo rotante a frizione), giocando tutto il pezzo su glissati, effetti legnosi, pulsanti, giochi eterofonici, che trasfiguravano con una certa fantasia il suono del quartetto, seguendo un ideale di continua metamorfosi, e alcune riflessioni sulla “soglia di transizione” mutuate dal pensiero del filosofo coreano Byung-Chul Han. Arditti e Jack Quartet si sono poi uniti in un concerto con due lavori per otto strumenti spazializzati: in Indigo la serba Milica Djordjević (1984: allieva di Ivan Fedele e Hanspeter Kyburz) disponeva i due quartetti sulle due balconate laterali della sala, affidando loro funzioni autonome, ma creando nell’insieme una materia densa e ricca di colori; in Undone l’americano Rand Steiger (1957), distribuiva gli otto strumenti intorno alla sala, lascinado sul palcoscenico solo un violino (Irvine Arditti) che diventava la scaturigine di un frenetico gioco di imitazioni, di rapidi movimenti “a staffetta”, con effetti di massa e break imporvvisi, che generava un effetto movimentato e avvolgente, enfatizzato dall’elettronica.
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