di Francesco Lora
I PURITANI DI BELLINI, TITOLO GHIOTTO, ERANO ATTESI AL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA GIÀ NEL GENNAIO 2021. L’emergenza sanitaria, però, aveva trasformato il regolare ciclo di rappresentazioni in una singola esecuzione in forma di concerto, trasmessa in streaming.
La corrente stagione d’opera nel Teatro Costanzi, che è anche una nobile operazione di recupero e potenziamento di quella precedente e sacrificata, ha ora i conti in pari col capolavoro belliniano: sei recite dal 19 al 30 aprile hanno confermato la qualità della già nota lettura musicale e vi hanno unito il nuovo allestimento con regìa di Andrea De Rosa, scene di Nicolas Bovey, costumi di Mariano Tufano e luci di Pasquale Mari. Un allestimento scenico che non arricchisce di molto, in verità, la portata di uno spettacolo già forte nella musica. V’è una trasposizione spazio-temporale a un Novecento così indeterminato, in ciò che si vede, da non sembrare questo così differente dall’originale secentesco in versione austera. E l’unica presa di posizione registica – vincente, tuttavia – consiste nell’autolesionismo di Elvira, che si ferisce gli occhi e si procura una cecità temporanea, indicativa del proprio stato di disperata follia amorosa: ecco spiegato allora, quando ella recupera il senno, nel gran duetto dell’atto III, il perché di quella piattaforma che s’illumina fino ad abbagliare la platea.
Un’analisi capillare meriterebbe invece la concertazione di Roberto Abbado, il quale guida l’orchestra e il coro romani cavandone una prestazione sfolgorante. Ecco ostesa la superba pompa sinfonica della partitura più sottilmente strumentata da Bellini, col suo sontuoso accumulo di parti, la sua setosa o dorata tavolozza timbrica, lo sferzante ritmo militaresco pronto a trapassare nel patetismo alla napoletana, con i “numeri” musicali tanto incalzanti da lasciare spazio minimo ai recitativi. Detto in breve: I Puritani secondo Abbado sono una meraviglia poiché ignorano la tradizione fannullona e sono investiti, al contrario, della stessa cura che si presterebbe a Schubert, Mendelssohn o Schumann, nelle massime capitali internazionali della musica.
A ribadirlo v’è un aspetto gigante, peculiare di questa esecuzione. Essa è integrale, tale da lasciare intatte le strutture – nell’opera italiana la struttura musicale è sempre anche una struttura teatrale, primaria – e le tipiche, spesso ignominiosamente sforbiciate ripetizioni dalle quali deriva, in ampia parte, il senso di proporzione testuale e il dosaggio della tensione scenica. Fatto trenta, sarebbe stato provvidenziale fare trentuno, e riaprire anche i quattro grossi tagli che Bellini stesso fu costretto ad apportare per la banale esigenza pratica di abbreviare lo spettacolo all’esordio parigino del 1835. Essi riguardano il tempo di mezzo nel terzetto di sfida all’interno del Finale I, più, nell’atto III, una porzione della scena di Lord Arturo Talbo, il cantabile nel duetto di lui con Elvira e la loro cabaletta nel coro conclusivo: un quarto d’ora di musica eccellente oggi tutta recuperata nell’edizione critica a cura di Fabrizio Della Seta, riabilitata in parte già da Michele Mariotti nell’esecuzione bolognese del 2009 e necessaria per restituire alla partitura il più coerente e compiuto assetto con ben speso lavoro aggiuntivo.
Bisognerebbe ovviamente scendere a patti col quartetto dei cantanti principali, cui spetta, nei Puritani, affrontare un tour de force. Jessica Pratt, come Elvira, ha il vanto di una perfetta naturalizzazione idiomatica e stilistica italiana, quello di una vocalità di virtuosa in convivenza con una comunicativa immediata, quello infine di mostrare inusuale dottrina e passione in questo insidioso repertorio. Arturo doveva essere Lawrence Brownlee, ma, resasi necessaria la sua sostituzione, il teatro ha calato l’asso di briscola: John Osborn, a sua volta ostacolato nella respirazione da un’evidente allergia, eppure capace di portare un morbido e duttile legato fino alle stelle del pentagramma, compreso il famigerato Fa sopracuto evitato – i melomani raccontano – alla prima recita, tentato alla seconda e finalmente scoccato luminoso e cordiale alla terza. Il pesce fuor d’acqua non sarà Nicola Ulivieri, che nella parte di Sir Giorgio – centrale, cantabile, rettilinea – mostra i segni della stanchezza ma anche l’abnegazione del mestiere. L’elemento estraneo sarà piuttosto Franco Vassallo, voce abbondante in volume, facilità e smalto, ma canto un tantino grossolano e monocorde anche se riferito al vilain dell’opera, Sir Riccardo Forth. Funzionale il comprimariato di Roberto Lorenzi, come Lord Gualtiero Valton, di Rodrigo Ortiz, come Sir Bruno Roberton, e di Irene Savignano, come Enrichetta di Francia (una parte che lieviterebbe di responsabilità con la riapertura del primo taglio d’autore). Opera di precetto, locandina d’oro, teatro stracolmo, applausi felici.