A Torino primo concerto del Ciclo dedicato alle sinfonie beethoveniane con la Mahler Chamber Orchestra
di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
SERATA TUTTA IN CRESCENDO, quella di martedì 27 gennaio, a Torino presso il vasto Auditorium ‘Agnelli’ di via Nizza, per la stagione di Lingotto Musica. Grande era l’attesa per il primo dei concerti che Daniele Gatti dedica all’integrale delle Sinfonie di Beethoven, alla guida della Mahler Chamber Orchestra, ciclo destinato a proseguire in maggio e a concludersi poi la prossima stagione. Serata comprensibilmente in crescendo, dicevamo, dacché alla Prima ed alla Seconda – affrontate con compassato equilibrio e misurata sobrietà, sì da porne in luce la natura ancora tutta haydnian-mozartiana (ma non solo, come diremo) – è stata fatta seguire l’immortale e fantomatica Quinta; e allora la temperatura emotiva del pubblico, dapprima (un poco) freddino, s’è improvvisamente riscaldata. In maniera del tutto giustificata, occorre ammetterlo: la lettura condotta da Gatti è infatti da manuale, potendo contare certo su una compagine di primo livello che è sempre un piacere riascoltare.
Molta incisività ritmica in apertura della Sinfonia in do minore dall’emblematico attacco che tanto inchiostro ha fatto scorrere (il destino che bussa alla porta). Tuttavia niente deliri scomposti, né certe eccessive accensioni che altri direttori profondono a piene mani con capziosa incoscienza o, peggio, con consapevole e un po’ fraudolenta captatio benevolentiae. Insomma niente facili concessioni, ma estrema cura dei dettagli e un suono sorvegliatissimo, soprattutto precisione ritmica assoluta, quasi cartesiana; da manuale, appunto. E poi che cura dei dettagli: quella medesima cura maniacale riversata nel successivo Andante fin dall’effusiva melodia di viole e celli, giù giù sino alle luminescenti fanfare da esprit ‘rivoluzionario’ che ben presto dilagano. Accensioni luminescenti come un brillìo di stelle e rarefazioni indicibili, senza mai eccedere. E che bellezza di suono nella livida, soffocata opacità comme il faut all’esordio dell’Allegro e tutto il gioco dei contrappunti (nel Trio affrontato senza un briciolo di cedimento) perfettamente in asse. Poi – vera lezione di stile – le ultime misure di questo singolare Scherzo, e la capacità di far comprendere a chiunque il ‘senso’ dell’orchestrazione beethoveniana ‘spezzettata’ tra i vari strumenti, il protratto pedale di sol e l’irrompere luminoso del Finale, catartica rivelazione, cui Gatti ha conferito tempi spigliati e l’immancabile aplomb. E a fine serata una vera ovazione.
Più misurate le reazioni dopo la Prima Sinfonia (che è un capolavoro di delizie e, in chiusura – si sa – anche di humour). Curiosamente Gatti si è fiondato con un tempo assai spiccato nell’Allegro con brio iniziale – sotto altre bacchette avrebbe rasentato il nevrotico – sottolineando alcuni passi con magici quanto inattesi rallentando; ha poi invece evitato di spingere troppo nel Finale. Scelta un po’ controcorrente che finisce per penalizzare in termini di entusiasmo. Molto ‘sciolto’ – opportunamente – è parso l’Andante e qui Gatti ha fatto di tutto per farcene comprendere le derivazioni dall’universo classicista e, nel contempo, le innegabili novità. Giocato su mezze tinte e colori sfumati, sì da porne in luce l’allure per così dire cameristica. Bene il Minuetto, già proteso verso la forma del più moderno Scherzo, affrontato con vigore e delicatezza al tempo stesso, misura e compostezza senza cedere di un soffio (giustamente) nel Trio dove altri invece indugiano innescando clamorosi flop. Forse appena qualche leziosaggine di troppo nelle celebri battute che introducono il Finale, tre note, poi quattro, poi cinque infine una scala come un punto interrogativo e Gatti l’ha resa forse un po’ troppo manierata, ma è peccato veniale.
Della Seconda, dopo la virile solennità dell’Adagio (ammirevole la consueta perizia nel curare i dettagli e grandi emozioni nel passo sublime che pare preannunciare la Nona), ecco l’energetico scatenarsi dell’Allegro con le sue ebbre scorribande e il gioco degli sforzando. Ma anche qui, pur sbrigliando l’orchestra, tutto appariva sorvegliato, fin nei passi più smaccatamente umoristici: per dire, niente esagerazioni nel rumoroso frammento all’ungherese (per i maniaci dell’analisi a partire da battuta 61, come in certi tratti della Waldstein), uno spessore corposo ed un sound molto compatto, ma al tempo stesso il giusto peso a mille particolari. E poi il dovuto rilievo melodico al delizioso Larghetto (che pare annunciare il secondo tema del futuro Primo concerto pianistico di Brahms) e compassati accenni a ritmi di danza ben resi con allusiva souplesse. Avremmo voluto qualche brivido di follia in più e maggiori esasperazioni sonore nello Scherzo, tutto provocatorie contrapposizioni di colori, e più ancora avremmo voluto nel Finale più coraggio (più faccia tosta) nel porre in evidenza il tema ricorrente, quasi uno sberleffo; insomma avremmo voluto un Beethoven più impertinente al limite dell’ebbrezza. Ma Gatti è così, sobrietà e misura estreme. Poi però con la Quinta Dioniso pareva salito sul palco. E non l’ha più abbandonato.