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Il nodo di Ostrava

di Gianluigi Mattietti
4 Agosto 2016
in XX e XXI
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Home XX e XXI
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Iannis Xenakis, Oresteïa
Richard Ayres, #42 In the Alps
Petr Cígler, TÁHLÝ ZVLNĚNÝ

Ligeti, Aventures
Iannis Xenakis, Oresteïa


Giunge alla terza edizione la rassegna di musica contemporanea dedicata al nuovo teatro musicale. Le opere di Petr Cígler, Richard Ayres, Petr Kotík e Idin Samimi Mofakham insieme alle storiche Aventures e Nuvelles aventures di Ligeti e Oresteïa di Xenakis


di Gianluigi Mattietti


Ostrava è la terza città della Repubblica Ceca, dopo Praga e Brno. Ma è una città poco conosciuta, con un passato industriale, una storia legata all’estrazione del carbone, alla lavorazione del ferro, al grande inquinamento. Ma oggi non è più una città mineraria: tutte le miniere sono state chiuse nel 1989 e i vecchi impianti industriali (costruiti nel 1828 nell’area di Vítkovice) sono stati trasformati in spazi culturali, musei e teatri. Ogni estate la città si anima con gli Ostrava Music Days, un’importante rassegna di musica contemporanea. E ogni due anni, in collaborazione con il Teatro nazionale di Moravia e di Slesia (Národní divadlo moravskoslezské), si tiene un festival dedicato al nuovo teatro musicale: NODO (New Opera Days Ostrava), nato da un’idea di Petr Kotík. Non ha un grande budget, ma ha gradi ambizioni questo festival. E alla sua terza edizione ha già conquistato una fama internazionale, e catturato l’interesse di pubblico giovane, legato non solo al mondo della musica, ma anche a quello dell’arte, del teatro contemporaneo, delle nuove arti performative e digitali. Un pubblico entusiasta, che ha affollato i sei spettacoli messi in scena, tutti affidati all’eccellente Ostravská Banda, ensemble formato da musicisti di diverse nazionalità, che è parso una vera rivelazione per qualità musicale. Due di questi erano lavori “storici” in prima esecuzione ceca, messi in scena in apertura e in chiusura del festival: Aventures e Nuvelles aventures di Ligeti e Oresteïa di Xenakis (entrambi diretti da Kotík).

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Katharina Schmitt ha curato regìa e scenografia del lavoro di Ligeti, creando uno spettacolo minuziosamente costruito sulla musica, con una scena illuminata solo da sporadiche proiezioni del testo, i tre cantanti in smoking (bravissimi: il soprano Lydia Brotherton, il mezzosoprano Lena Haselmann, e il baritono Markus Hollop) che ridevano, inveivano, gesticolavano, facevano ogni sorta di espressioni facciali, avanzando verso il pubblico o verso gli strumentisti, e interagendo con loro, rimproverandoli, analizzandone gli strumenti, usando anche piccoli megafoni, e lunghi tubi che scagliavano contro il direttore. Si materializzava così, in maniera molto plastica, fisica, lo stretto legame tra parte strumentale e vocale di questa composizione, basata su una lingua del tutto artificiale, fatta di fonemi, capace di evocare il fantasma di una lingua primigenia, di riconciliare i suoni e le cose.

L’Oresteïa di Xenakis, scritta originariamente come musica di scena per la trilogia di Eschilo, poi trasformata in un ibrido tra cantata e rappresentazione coreografica, è una musica dal fascino scabro e petroso, fatta di blocchi di materia sonora, con una parte strumentale frammentaria, spesso monodica, giocata su estremi di registro, e grandi episodi corali, anche parlati, ritmati, urlati. Il coro maschile, in nero (il coro Canticum Ostrava) si alternava alle monodie, i bicinia, ai clamori delle Coefore, in abitini eleganti come delle hostess, e al coro di voci bianche. Il canto trasfigurato di Cassandra (affidato al registro di falsetto del baritono Holger Falk) era accompagnato da un’ampia parte di percussioni (suonate da un autentico virtuoso come Tamas Schlanger). Ma era una musica datata, priva di una reale forza teatrale, nonostante le belle idee del regista Jiří Nekvasil, i sapienti movimenti delle masse corali e delle luci, le scene geometriche di David Bazika (fatta di scale e impalcature di metallo), le proiezioni introno alla sala, le figure lente e ieratiche disegnate da un danzatore, che contribuivano a creare l’atmosfera di un grande rituale.

Le altre quattro opere in programma erano prime mondiali. Molto freschi, stimolanti, ricchi di humour, nonostante qualche tratto naïf, i lavori di Petr Cígler e Richard Ayres, messi in scena al Divadlo Antonína Dvořáka (Teatro Antonín Dvořák), che giocavano anche con alcuni elementi tradizionali del melodramma. Cígler, eclettica figura di compositore, cornista, chimico, “molecular designer”, in Protracted Sinuous Movement of a Longitudinal Object raccontava l’incontro tra un uomo, una donna e un serpente a sonagli, come una rilettura ironica del mito del serpente tentatore (il libretto era di Petr Odo Macháček, che firmava anche la regia). Le parti vocali, dal carattere ritmico, in uno stile di discanto arcaico e modale erano affidate a due soprani (Aneta Bendová e Eva Gieslová, che in una scena ritmavano il canto con della carta vetrata strofinata su delle assi di legno) e a due voci maschili (il tenore Vojtěch Semerád, e il baritono Josef Škarka) che interagivano tra loro in forme antifonali, spesso caratterizzate da sofisticati effetti di delay, da continui cambi di metro, da un motorismo ritmico che ricordava le Nocesstravinskijane. Ma si intrecciavano spesso anche con le voci di alcuni attori, in originali concertati parlati-cantati, e con la parte strumentale (diretta con grande cura da Ondřej Vrabec), trattata come fosse una musica elettronica, con effetti pulsanti, suoni di incudini e di bombolette spray, glissandi molto lenti, rauchi grumi sonori. La regìa, elegante e ironicacon  vari riferimenti allo stile anni 50, faceva muovere i personaggi meccanicamente, come degli stereotipi, e maneggiare oggetti quotidiani, coltelli, aspirapolveri, macchine fotografiche e tablet.

Una vera e propria fiaba sembrava poi l’opera di Ayres, #42 In the Alps, presentata per la prima volta in una versione scenica con la regia folle e dinamica di Jan Horák. Concepita come un tradizionale melodramma in tre atti, su libretto dello stesso compositore, raccontava la storia d’amore tra una ragazza di montagna, che imparava a parlare dagli animali, e Bobli, un giovane muto che imparava a comunicare suonando la tromba (le sue parole erano proiettate, come sottotitoli di un film muto). Partitura brillante e virtuosistica (affidata alla direzione esperta di Rolf Gupta), insieme tradizionale e spiazzante, scritta con straordinaria abilità, con modulazioni continue. Una musica forsennata (che lo stesso compositore definisce come quella di «una banda da circo sotto l’effetto di stupefacenti») punteggiata da temi tirolesi, rapidi ritmi di danza, suoni di corni, campanacci, muggiti, e altri versi animaleschi (di capre, usignoli, gufi, cicale), con un crescendo finale che sfociava in un vero pandemonio. János Elmauer, nei panni di Bobli, era un trombettista di qualità. Ma la vera mattatrice della serata è stata ancora la Brotherton, straordinaria nell’intrecciare vocalizzi, yodel e versi di animali.

Un teatro musicale non narrativo, basato su collage di testi diversi, era quello delle altre due opere: William William di Petr Kotík e At the Waters of Lethe dell’iraniano Idin Samimi Mofakham. Scritta su commissione del Národní divadlo moravskoslezské per celebrare i 400 anni dalla morte di Shakespeare, William William era concepita come una «dance opera» che mescolava frammenti di Timon of Athens e passi tratti da un testo autobiografico di Natalie Babel, figlia del grande poeta russo Isaac Babel. Le voci dei tre cantanti (i soliti Brotherton e Hollop, insieme al basso Adrian Rosas) e di un’attrice si intrecciavano con i movimenti di cinque danzatori (Matilda Sakamoto, Colin Fuller, Rei Masatomi, Isabelle Ayers e Giordano Bozza), una bella coreografia (di Lucie Hayashi), fatta di movimenti espressivi e molto fluidi, che faceva emergere il lato sensuale, passionale delle vicende evocate nei testi. Netto, ma affascinante, il contrasto con la parte strumentale un po’ fredda, minimal, una trama mobilissima e ripetitiva, costruita con gli stessi pattern melodici e ritmici del canto e del parlato, affidata a due violini (gli ottimi String Noise: Pauline Kim Harris e Conrad Harris). Meno interessante At the Waters of Lethe già a partire dal piano drammaturgico: il libretto della polacca Martyna Kosecka (che curava anche l’elettronica – la Kosecka è anche una compositrice, nota per aver vinto lo scorso anno il concorso per una mini-opera alla Biennale di Zagabria) metteva a confronto Lete, figlia della dea Eris e personificazione dell’oblio, con le vite di tre compositori, Gesualdo da Venosa, Alfred Schnittke e Robert Schumann, e con quella di Edward Mordake, personaggio celebre in epoca vittoriana per la sua malformazione fisica, un secondo volto sulla nuca. I racconti dei personaggi, che sembravano risvegliarsi dalla morte al canto ieratico di Lete (ottimo il mezzosoprano iraniano Alma Samimi), non creavano mai una vera tensione drammatica, non c’era azione, la musica (diretta ancora da Rolf Gupta) risultava un mix piuttosto caotico di melopee arcaiche, suoni elettronici, accensioni improvvise, lo spettacolo firmato da Ewelina Grzechnik, aveva un’impronta “dark-kitsch”, con i personaggi che si muovevano come zombie, e una profusione di colonne, statue, altari, cornici sbilenche, e una vaschetta da pesci nella quale cadeva ininterrottamente dell’acqua. L’acqua dell’oblio.

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Tags: Lena HaselmannLydia BrothertonMarkus Hollop
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Gianluigi Mattietti

Gianluigi Mattietti

Docente di Storia della musica all'Università di Cagliari, autore di saggi e studi sulla musica del Novecento e contemporanea, collabora come critico musicale con le riviste Amadeus, The Classic Voice, Musica, Il Giornale della Musica, Golem informazione, Il Corriere Musicale.

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