di Monika Prusak foto © Rosellina Garbo
Dopo il suggestivo Viaggio d’Inverno di Ludovico Einaudi, il Teatro Massimo di Palermo propone l’oratorio scenico Das Paradies und die Peri di Robert Schumann, prodotto in collaborazione con la Compagnia teatrale sperimentale Anagoor e il Museo Egizio di Torino. Il progetto artistico Anagoor, che oltre alla regia ha curato le scene, i costumi e le installazioni video, si avvale della consulenza del drammaturgo tedesco Klaus-Peter Kehr. Accanto al regista e ideatore Simone Derai, sono diverse le figure professionali coinvolte: gli assistenti Marco Menegoni, Monica Tonietto, Freddy Mason e Massimo Simonetto, Fabio Sajiz alle luci, e un ricco staff addetto alle riprese e al montaggio dei video, tra cui Giulio Favotto, Emanuele Confortin, Anita Mousavian, Annalisa Grisi e Michele Mele.
La storia della Peri è semplice e lineare: una fata persiana (Pairikās, nell’antica religione persiana preislamica) dagli occhi giganti che si nutrono di bellezza, viene scacciata dal Paradiso e affronta tre prove per rientrarvi. La fata ha origini impure, poiché nata dalla unione di un angelo caduto e di una donna mortale. Si ha quindi un elemento fiabesco unito all’idea spirituale di un Paradiso desiderato ma non accessibile a tutti. Le prime due offerte della Peri vengono scartate dall’angelo di Allah. Dopo l’ultima lacrima di un combattente per la libertà e l’ultimo respiro di una vergine nelle braccia dell’amante morente, la protagonista porta con sé le lacrime di un criminale commosso alla vista di un bambino che prega; con questa offerta finalmente può riavvicinarsi alle porte dell’Eden. L’ispirazione di Schumann è tratta da un testo a lui caro, Lallah Rookh (1817), dello scrittore irlandese Thomas Moore, in cui la leggenda della Peri viene raccontata in un breve componimento in versi.
Il palcoscenico ci accoglie con un enorme tappeto persiano ove è disposto il coro in costume (ahimé, con gli spartiti alla mano!); la Peri in hijab nero, ha il volto inizialmente coperto da una maschera con lunghe frange colorate che ne accentuano la tristezza. Il piano è inclinato, dando impressione di un ampio spazio aperto, quasi fosse un deserto nel quale i personaggi compiono minimi spostamenti. La fissità degli interpreti, disposti tuttavia in una maniera drammaturgicamente valida, rende la composizione statica e plumbea, concentrando l’attenzione sulle installazioni video continuamente in movimento. Sullo schermo scorrono le immagini dei volti scattate in Iran, nel Golfo Persico e in Turchia, volti quotidiani e volti di guerra, senza tuttavia volerne trasmettere esplicitamente il contesto politico. Una parte delle riprese effettuate al Museo Egizio di Torino contrappone il senso eterno e statico delle esposizioni alla vicenda dei due amanti che danzano e si inseguono in prossimità della morte sfidata dalla loro spensierata bellezza. Il terzo blocco di immagini presenta lo stesso Schumann attorniato dalla sua famiglia, dalla moglie Clara e dai numerosi figli, tutti assorti in un silenzio tenebroso e privo di mimica, quasi fossero delle statue gotiche e immobili, in attesa di qualcosa che fatica ad avverarsi. Ed è proprio quello il tratto che lega la messa in scena di Anagoor all’oratorio di Schumann. La staticità dell’attesa, un animo sospeso in cerca di redenzione, di una liberazione che arriva tardi, troppo tardi per poter essere vissuta con serenità. La Peri attende con dolore le sue sconfitte e sfinita dalla ricerca entra finalmente in Paradiso. Il compositore non regge l’attesa di una “redenzione” personale, imprigionato nell’inerzia familiare. Nonostante la vitalità del mondo che lo circonda, la sola resurrezione possibile è infatti quella che passa attraverso la morte.
Tra gli interpreti spiccano L’angelo impersonato da Atala Schӧck, la cui voce suadente e pacata crea perfettamente l’immagine di un messaggero divino e il Tenore di Maximilian Schmitt, narratore eccellente da oratorio, che riesce a coinvolgere lo spettatore con il suo canto di bachiana precisione. Sarah Jane Brandon è una Peri delicata e sofferente, tuttavia a tratti la voce non riesce a superare il volume corposo dell’orchestra. Il cast si completa con La giovane sposa-Soprano e Ghazna-Il baritono interpretati egregiamente da Valentina Mastrangelo e Albert Dohmen. Il Coro preparato da Ciro Visco inizia con un suono poco consono con la tradizione oratoriale tedesca per inserirsi gradualmente nella vicenda e nella vocalità più calibrata dei solisti. L’Orchestra diretta da Gabriele Ferro e situata sullo stesso piano dell’azione, si immerge nel trasporto espressivo della partitura, ogni tanto sovrastando il canto solista. L’incontro tra l’immagine ripresa e la musica del passato crea qualche contrasto nella percezione dello spettatore, ma forse è proprio questa la sfida proposta da Anagoor. Solo un’accurata ricerca può portare alla redenzione del mondo dal male, una ricerca che potrebbe, inaspettatamente, realizzarsi prima di quel che pensiamo. La preghiera di un bambino e il ricordo della purezza del pensiero: potrebbe essere questa la via del cambiamento. Il mondo ha bisogno di commuoversi per poter essere purificato.