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Concerti • La formazione cameristica, Leone d’Argento alla Biennale Musica 2012, ha presentato un programma misto che alle composizioni di Stefano Scodanibbio ha accostato pagine di Dvořák e di Schumann
di Giampiero Cane
[IL] Quartetto Prometeo (Giulio Rovighi e Aldo Campagnari violini, Massimo Piva viola e Francesco Dillon violoncello) in un concerto bolognese di lunedì 28 gennaio ha presentato al pubblico di Musica Insieme un programma comprendente il Quartetto in re minore op. 34 di Dvořák, tre Reinvenzioni di Stefano Scodanibbio e il Quartetto in la maggiore op. 41 di Schumann. È un programma che risulta dal compromesso tra l’indirizzo dell’associazione musicale committente e quello dell’ensemble. Quella è orientata a seguire i gusti del suo pubblico, così rinforzandoli; il quartetto amerebbe piuttosto promuovere musicisti estranei al repertorio, far fare agli ascoltatori l’esperienza di almeno un poco di novità. La ricerca del compromesso necessario produce risultati ambigui, non necessariamente insoddisfacenti. Infatti, nell’intervallo, tra i Quartetti di Scodanibbio e quello di Schumann, abbiamo notato una certa curiosità sulla musica che s’era appena ascoltata. Si trattava di Dionisio Aguado: Andante, Besame mucho e Sandunga, che – tranne il primo brano, uno dei Quattro pezzi spagnoli, che presentato così mischiava nel titolo il nome dell’autore della musica (Dionisio Aguado) e quello del pezzo (Andante), cosa su cui sorvolare – fanno parte del Canzoniere messicano di Scodanibbio. Il secondo nasce da una canzone che è un evergreen, il terzo è presente nella registrazione dei bis del Quarteto Latinoamericano (Dorian DSL 92108).
Queste musiche del compianto contrabbassista marchigiano sono proprio seducenti: hanno l’ossatura di cose popolari nelle orecchie di chiunque da sempre, ma sono riplasmate in giochi di rinvii da uno strumento all’altro, di trasferimenti, e distillate in maniera tale che è come se stessero di fronte a uno specchio crepato, senza più un piano omogeneo, dunque tale per cui vi si riflette un’immagine diversa da quella comunemente ritenuta reale. Sono molto di più di un arrangiamento; sono vere e proprie parodie, nelle quali una nuova mano mette insieme quel che c’è con un nuovo pensiero e ne nasce una terza cosa, la cui esistenza è facilitata dalla comune memoria di quel che già c’era. Forse in fondo l’operare di Scodanibbio in questo caso non è poi molto distante dalle variazioni di Liszt su pagine dei melodrammi di Verdi e di altri, ma l’effetto è decisamente diverso. Se nel pianista magiaro convergono gioco e virtuosismo salottiero, qui il gioco piuttosto che con le musiche richiamate avviene con la scuola del modernismo musicale, nel frammentarsi oggettivo delle frasi e nella guerra che avviene nell’ascoltatore tra l’invitante riposo di quel che è noto, cioè, per essere chiari, di Besame Mucho quale tutti lo conosciamo, e l’andamento turbato, le luci rifratte, l’aura sentimentale nuova della riscrittura di Stefano Scodanibbio.
Il Quartetto Prometeo è un ottimo ensemble. L’anno scorso ha avuto un meritatissimo premio dalla Biennale Musica. Quando e come può presenta musicisti nostri contemporanei. Fosse per i quattro strumentisti, offrirebbero musica d’oggi più che non avvenga di consueto nei programmi cameristici. Ma nel mondo semizombie delle accademie musicali nostrane, ciò non è possibile se non in contenitori che preservino la catalessi dal rischio di contagio (diciamo le rassegne di musica contemporanea). Non è che i quattro del Prometeo non amino suonare Dvořák o Schumann o altri romantici o pre o post tali, ma credo che soprattutto Dillon preferisca musiche di compositori attuali, meglio se frequentati personalmente. Ho l’impressione, inoltre, che se e quando vanno a frugare negli scaffali polverosi (è solo un giudizio analitico, cioè polverosi è contenuto in scaffali), lo facciano con altrettanta curiosità per il poco frequentato, andando a pescare tra il semidimenticato, il trascurato, il “minore”.
Salta fuori allora che ti danno un Quartetto di Dvořák che s’appoggia interamente a Brahms, cosa che non rappresenta niente dell’alterità del boemo, di quell’allontanarsi dalla centralità tedesca di cui anche in lui c’è qualche traccia, ma che è proprio un mettere il sedere in una poltrona viennese e cullarsi nello standard. Qualcosa di diverso c’è solo nel terzo movimento, un Adagio che ha vaghi profumi esotistici, quasi francesi. Visto che va di moda, però, a Francesco Dillon tocca il compito di svolgere una “spiega” per il pubblico e allora, sulla base della “progressività” brahmsiana inventata da Schoenberg, di questo quartetto passatista egli tenta di dare un’immagine progressista. Il pubblico non ha ancora ascoltato la musica. Sta alle parole e quand’essa risuona le ha già dimenticate, tanto per ascoltare e accogliere Dvořák basta e avanza l’abitudine all’Ottocento. Forse a qualcuno sarà mancato l’avvenire “americano”, ma Dillon ha avvertito che, appunto, d’avvenire si sarebbe trattato.
Personalmente non trovo né interessante né particolarmente bello nemmeno il Quartetto di Schumann presentato in conclusione. Anch’esso mi sembra scritto guardando il retrovisore, tra Beethoven e Schubert. Nel primo movimento, ma anche nei successivi pur se meno insistentemente, gli archi sembrano svolgere figure di una parata militare, pedestre o equestre: uno dietro l’altro fanno sostanzialmente la stessa cosa. È un balletto di musica militaresca che ci dà un’immagine apprezzabile di un aspetto dell’Ottocento che comunque è presente già con evidenza nel Beethoven delle sinfonie terza e quinta, ma anche in altre. Irregimentata, la musica va di qua, poi di là, s’interrompe, si ripete, non sa come finire e, unico momento di schumanniana follia, nel finale, si deforma in una coda che è un minuto capolavoro a sé.
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