Alla direzione dell’orchestra e coro dell’Accademia di Santa Cecilia nelle due Suite dal balletto Daphnis et Chloé nella Seconda Sinfonia del compositore italiano
di Simone Caputo
GIANANDREA NOSEDA TORNA A CALCARE LE SCENE ROMANE dopo un’assenza durata dieci anni, guidando l’orchestra e il coro dell’Accademia di Santa Cecilia nelle due Suite dal balletto Daphnis et Chloé di Maurice Ravel e nella Sinfonia n. 2 di Alfredo Casella, partiture coeve, composte entrambe intorno agli anni Dieci del Novecento. Se a Ravel e alla sua maestrìa nel generare colori orchestrali il pubblico italiano è certamente abituato, non altrettanto si può dire per Casella, ancora oggi in gran parte sconosciuto alle sale da concerto, forse anche per ragioni legate a contraddittorie interpretazioni della sua adesione – poi tramutatasi, con la promulgazione delle leggi razziali, in presa di distanza – al fascismo: particolare merito va, dunque, riconosciuto a Noseda per aver proposto rilevanti pagine musicali rimaste a lungo inedite.
Noseda sembra dominare la Seconda Sinfonia senza alcun dubbio, esaltandone le grandi campate in cui la tensione si accumula in un crescendo perpetuo
La composizione di Daphnis et Chloé, da un’idea di Fokine, fu affidata da Djagilev a Ravel nel 1908, all’epoca già famoso autore di Miroirs e Rhapsodie espagnole, che così descrisse i suoi propositi: «è stata mia intenzione comporre un vasto affresco musicale, meno attento all’arcaismo che alla fedeltà verso una Grecia dei miei sogni, che volentieri si congiunge alla Grecia che hanno immaginato e dipinto gli artisti francesi della fine del XVIII secolo». Un capolavoro, terminato nel 1912, che costò al compositore francese non poche amarezze e scarso favore per diversi anni: basti ricordare che alla ripresa del 1913 non andò meglio, dal momento che il 29 maggio esplose lo scandalo del Sacre du Printemps di Stravinskij, che spinse nell’ombra molte opere contemporanee. Ma se sulla scena Daphnis et Chloé non ha avuto, né allora né poi, un successo paragonabile a quello di altri grandi balletti, diversi sono stati gli esiti per le due suite – in particolare la seconda – che Ravel ne ha tratto.
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La prima Suite raccoglie frammenti delle musiche composte per il balletto: il finale del primo quadro, Nocturne, accostato a Interlude e Danse guerrière, destinati ad accompagnare il secondo. Le difficoltà tecniche poste dalla partitura sono superate con maestria dall’orchestra, di cui Noseda esalta la capacità di muoversi sulle mezze tinte o d’alternare pieni e vuoti, sin dal pianissimo con sordina e tremolo dell’iniziale Nocturne. Sensuale è la presenza del flauto, la cui melodia illumina l’atmosfera del movimento prima di trapassare agli archi che, abbandonata la sordina, nonostante l’indicazione limitata al mezzoforte, sono quasi sospinti a portare una folata liberatoria su una scena musicale tutta votata all’instabilità. Noseda sceglie sapientemente, mantenendo il controllo sulla partitura, di esaltare quei contrasti drammatici, che generano quasi sensazioni fisiche ed oniriche, sui quali la Suite si fonda, fino alla Danse guerrière: serrata e ossessiva, sostenuta con spregiudicatezza dagli archi e precisa ostinazione dalle percussioni, mantiene una tensione sempre crescente, capace di spingere l’ascoltatore come nel turbine di una reale danza guerresca.
La musica della seconda Suite è quella del terzo quadro del balletto, durante il quale Dafni e Cloe mimano la storia degli amori di Pan e della ninfa Syrinx prima di cadere l’uno nelle braccia dell’altro: Noseda costruisce una morbida base nel legato degli archi, di modo che il resto dell’orchestra possa spiccare senza mai rimanere scoperta nell’impasto; al contempo i fiati impreziosiscono l’insieme di colori e figure estremamente evocative. Controllata e sapiente è la gestione delle dinamiche, capace di portare avanti con cura cambiamenti di intensità, a volte anche di lunga durata. Alto è il livello di compattezza e precisione raggiunto dalla compagine orchestrale nell’ultimo movimento, Danse gènèrale, passaggio orgiastico, basato su un tempo di 5/4 nel quale si innestano continue discrasie, che Noseda gestisce con impeto e cercando quasi di suggerire – contando sull’utilizzo delle voci – la suggestione di due respiri alle prese con un’intensa tensione ritmico-erotica.
A introdurre la seconda parte del concerto dedicata alla Seconda Sinfonia di Alfredo Casella è lo stesso Noseda, che opportunamente ricorda al pubblico l’eccezionalità della serata (la Sinfonia viene per la prima volta eseguita a Santa Cecilia, a più di cento anni dalla première parigina del 1910), la genesi dell’opera (composta da Casella quando già viveva in Francia da più di dieci anni), gli elementi fondanti dei quattro movimenti e dell’epilogo (poi dovutamente ripresi ed evidenziati in corso d’esecuzione). Come anticipato da Noseda – che ha sottolineato la capacità di Casella di metabolizzare diversi stili in termini personali, attraverso una comunicatività tutta italiana – compositi e molteplici sono i valori che vanno a concorrere alla formazione del linguaggio: l’influsso mahleriano si manifesta nel clima cupo dell’incipit e nel tema di marcia funebre del Finale; il tardo romanticismo francese rivive nella citazione di un tema tratto dalla Sinfonia in re minore di César Franck; lo sviluppo del primo movimento richiama a tratti alcuni modi della Patetica di Čajkovskij; numerosi, infine, sono gli echi di Borodin e Musorgskij. Noseda sembra dominare la Seconda Sinfonia senza alcun dubbio, esaltandone le grandi campate in cui la tensione si accumula in un crescendo perpetuo: e non è un caso, dal momento che è stato proprio lui a restituire notorietà alla partitura dopo anni di oblio, dirigendola nel marzo del 2013 a Francoforte. L’orchestra, intensa e concentrata – anche in un momento complesso, come il secondo movimento, una sorta di pot-pourri ad altissima velocità – brilla specialmente con gli ottoni e gli archi gravi, capaci di reggere per oltre un’ora la forsennata corsa imposta da Casella. Noseda dà forma coerente, chiara e d’impatto, a un’opera che, per quanto non risulti un capolavoro di innovazione, resta una sorprendente testimonianza di perizia nell’orchestrazione, distribuzione della ricchezza timbrica, gestione delle dinamiche e delle tensioni armoniche, non comuni per un compositore italiano dell’epoca. E di fronte a un regalo così prezioso il pubblico romano non poteva che tributare un lunghissimo applauso a Noseda, come d’altronde a tutti gli orchestrali.
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