di Attilio Piovano foto © Ramella & Giannese
Felice accostamento di due fortunati titoli novecenteschi al Teatro Regio di Torino, che dispone ora di un nuovo sovrintendente, William Graziosi, il quale ha nominato a sua volta il nuovo Direttore Artistico puntando sulla figura di Alessandro Galoppini, forte di una pluriennale esperienza all’interno del teatro medesimo. E si è trattato del Segreto di Susanna di Wolf-Ferrari abbinato alla celeberrima Voix humaine di Poulenc, strepitoso capolavoro su libretto del poliedrico Cocteau, tale da richiedere una cantante-attrice di notevole levatura e di non comuni doti, sia vocali sia per l’appunto attoriali. Le possiede al massimo grado Anna Caterina Antonacci che non a caso – com’era facile prevedere – ha giganteggiato in entrambe le partiture la sera del 16 maggio 2018.
L’atto unico di Wolf-Ferrari è partitura deliziosa, fondata su un’esile quanto scontata trama: i sospetti di Gil, giovane sposo, nei confronti della consorte contessa Susanna (duplice ammiccamento mozartiano) ch’egli immagina possa avere un amante, di fatto svaniscono come una ‘nuvola di fumo’, quando scopre, in presenza del persistente odore di tabacco in casa, come la donna stessa ne sia la causa. E così, dopo gli equivoci alla Feydeau, gli imbarazzi, le finte baruffe e la rievocazione del loro amore nascente, seguono la confessione della donna, pronta a rivelare la sua ingenua debolezza, e la prevedibile riconciliazione tra gli sposini che si ripromettono eterno amore, inducendosi a fumare allegramente insieme.
La partitura di Wolf-Ferrari si rivela tuttora fresca, anche se invero per lo più priva di quell’ironia corrosiva che si trova in ben altre opere novecentesche di impianto neoclassico, ovvero informate alla cosiddetta estetica della ‘musica al quadrato’ (e vien da pensare ovviamente al sommo Stravinskij). Qualche accenno non manca, entro il gioco delle pseudo-citazioni o citazioni vere e proprie, che fluiscono in un linguaggio attento a coniugare reminiscenze e maniere di un Settecento ormai perduto e più moderni (e pur cauti) accenti. Per dire, quel lieve fugato collocato nel finale dell’ouverture, dalla mirifica trasparenza sonora, lo si ritrova poi in chiusura; e le parole «Tutto è fumo a questo mondo» ricordano in maniera fin troppo evidente il verdiano «Tutto al mondo è burla» nel Falstaff (dove peraltro la ‘macchina’ polifonica ha ben altro spessore e levità al tempo stesso). Wolf-Ferrari in altre parole sembra prendersi troppo sul serio, traendo a modello il ‘triangolo’ della pergolesiana Serva padrona e ‘ricreando’, a suo modo, un mondo musicale che non esisteva ormai più, nel 1909, con mano timbricamente felice e gusto miniaturistico capace di accarezzare con cura i dettagli.
La Antonacci canta con grazia ed appropriatezza di accenti, sbozzando una Susanna credibile, in apparenza ingenua e remissiva. Il baritono Vittorio Prato le tiene testa egregiamente, facendo il possibile per dare a sua volta credibilità al personaggio di Gil, di fatto bidimensionale e privo di una vera evoluzione psicologica. Bene Bruno Danjoux (mimo) nei panni del servitore Sante, cui dà vita con una gestualità adeguata, fatta di piccoli ammiccamenti e simpatiche trouvailles, senza peraltro rubare la scena ai protagonisti, ma capace di far intendere velatamente come – forse – egli stesso potrebbe essere il vero ‘segreto’ di Susanna. La partitura, occorre ammetterlo, qua è là contiene cedimenti più o meno vistosi, ad esempio fa flop laddove Susanna esalta liricamente il fumo («Oh gioia la nube leggera»), con quel disegno cromatico del clarinetto e quel violino – è stato detto – che vorrebbe apparire debussista (in partitura si può inventariare perfino una sorta di citazione da Syrinx trasposta però al grave); così pure non convince quel certo afflato lirico volto a rievocare lo sbocciare dell’idillio tra i due: Wolf-Ferrari in questi casi risulta sdolcinato, attraendo maggiormente invece nei passi improntati a spigliata colloquialità ricca di deliziose facezie (ma un Nino Rota saprà di certo far meglio ad esempio nel saporoso Cappello di paglia di Firenze).
Scena unica e semplice di Antoine Vasseur, tutta giocata su lineari quadrati e rettangoli come in una tela di Paul Klee, ma assai addomesticata, dai colori post-modern, decisamente fluo, ora giallo-verdi, ora rosa shocking, arancio, azzurro-viola (e così pure è dai colori vistosamente fluo quel gingillo fucsia che come per caso salta fuori dal vaso di fiori, forse un sexy toy? Taluno maliziosamente lo insinuava in sala): scena volta ad evocare con pochi semplici mezzi i vani dell’appartamento, ben esaltati dalle ottime luci di Sébastien Michaud. Corretta la regia di Ludovic Lagarde, decisamente minimal, con pochi tocchi volti a delineare la vicenda (il gesto della gamba pudicamente sollevata di lei, come una liceale di altri tempi, quando riceve il bacio in fronte, l’ombrello spezzato sulle ginocchia da lui come in una commedia amatoriale, il placido fumare di Sante, dopo aver schiuso l’alcova agli amanti-coniugi e via dicendo).
Ed è proprio quello stesso impianto scenografico, ora bianco ed elegantissimo, accessoriato di suppellettili da rivista patinata di design, stile «AD», ad attrarre immediatamente – in questo allestimento dell’Opéra Comique di Parigi in coproduzione con Les Théâtres de la Ville de Luxembourg ed Opéra Royal de Wallonie di Liegi – ovvero ad imporsi in apertura della Voix humaine: regalando la sorpresa della tridimensionalità. La scena ruota infatti ben presto su se stessa, e prosegue poi a ruotare di frequente, sottolineando ad arte il passaggio dei vari stati psicologici della protagonista, dall’affettuoso all’adirato, dall’accorato alla vera e propria disperazione. Scalza e discinta, indossa un’elegante, sensuale e frusciante veste da camera (o più propriamente un’assai fashion camicia da notte) color marron glacé, e dunque un plauso a Fanny Brouste che ovviamente firma altresì i più anonimi costumi del Segreto. Ad impreziosire la scena, che sui quattro lati mostra di volta in volta stanza da letto, cucina a vista, lussuoso bagno e salotto, uno schermo in ognuno degli ambienti – quasi leit-motiv scenografico – con l’immagine ravvicinata in bianco e nero di una donna in lacrime, melanconica e molto stile cinematografia francese nouvelle vague. La sorpresa è che l’immagine fissa diviene in realtà un video (a firma Lidwine Prolonge) nei piccoli interludi in cui la voce abbandona momentaneamente la partitura e a proseguire è la sola orchestra. Piccola idea, geniale forse no, ma di certo efficace.
Dal podio Diego Matheuz ha diretto con partecipazione, guidando correttamente l’orchestra entro le pieghe di una partitura che si fa ora languorosa, ora aspra, ora cupa, ora concitata, ora scabra, ora plumbea (certo la si poteva cesellare con maggior cura, ma insomma il risultato era più che accettabile). La vocalità è smozzicata, affranta, spesso rotta dal pianto; ed Anna Caterina Antonacci ha superato se stessa fornendo un’interpretazione di lusso di questa superba partitura, ovvero sfoggiando una vocalità duttile e flessuosa (già solo tenere a memoria la partitura è prova di grande professionalità), in abbinamento a una presenza scenica a dir poco incredibile. E sarebbe stato un vero trionfo personale se il pubblico torinese (specie il consueto parterre delle prime col suo snobismo congenito) non fosse stato così pigro da disdegnare in massa titoli ritenuti di nicchia, ovvero per dirla esplicitamente lasciando ampie e desolate zone di poltrone vuote. E per quella parte di pubblico che si è degnata di venire ad ammirare questo capolavoro assoluto (e così pure ad ascoltare il più rassicurante Segreto di Susanna) è parso quasi naturale applaudire, pur con misurata compostezza, quando c’era invece da spellarsi le mani ed urlare il proprio entusiasmo (più d’uno invero lo ha fatto) di fronte a un’edizione a nostro avviso memorabile della Voix. Cinque le recite complessive, sino a domenica 27 maggio.