Il quarantennale del tragico attentato a Brescia è stato commemorato al Teatro Grande con un’opera del compositore Mauro Montalbetti. L’esecuzione musicale è stata affidata a Carlo Boccadoro con l’ensemble Sentieri Selvaggi
di Laura Mazzagufo
NON C’È ANCORA una verità, dopo quarant’anni, su ciò che accadde a Brescia il 28 maggio 1974. Non c’è ancora una sentenza definitiva, tra le 750 mila pagine degli atti istruttori, che attribuisca un’identità ai colpevoli, un significato alle circostanze sospette, un peso alle responsabilità. Non c’è ancora una risposta per i familiari delle vittime, per i cittadini bresciani, per una nazione che domanda chiarezza. Affinché la strage di piazza della Loggia non diventi un passivo ricordo, non si può pensare di riempire questo vuoto con la semplice commemorazione, con retoriche targhe e corone fiorite, con atti ‘dovuti’: ancora di più il 9 maggio, giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo. L’altra sera, in ogni angolo del Grande di Brescia, dalla buca dell’orchestra al loggione, risuonava la volontà di fare di questo buco nero della storia italiana un’occasione di riflessione su momenti critici del nostro passato, sull’importanza dell’interpretazione rispettosa ma incisiva, e sull’efficacia dell’espressione artistica come mezzo di denuncia della violenza. Per l’occasione, il quarantennale della strage di piazza della Loggia, è stata concepita Il sogno di una cosa, l’opera ‘corale’ di Mauro Montalbetti, nata grazie alla collaborazione della penna di Marco Baliani (libretto e regia) e dell’occhio cinematografico di Alina Marazzi (regia video).
Non c’è – è chiaro fin da subito – il racconto diacronico dei fatti, l’impianto lineare e rassicurante di uno spettacolo tradizionale; c’è una materia musicale e drammaturgica rigorosa ma eterogenea, distribuita in sette scene senza soluzione di continuità. Ogni capitolo è un piccolo quadro, un fotogramma, un incastro di luci, ritmi, volumi, sonorità e linguaggi di volta in volta diversi. Facile innamorarsi di questa pluralità: è la voce, limpida, commovente e versatile, di Alda Caiello nella seconda scena, ma anche la coreografia feroce e spigolosa (affidata agli studenti della Scuola “Paolo Grassi” di Milano) nella fredda meccanicità del primo quadro; e ancora l’accattivante crossover tra danza, gestualità e percussioni di Roberto Dani, i volumi e le tinte granitiche di una scena, quelle liquide di un’altra. In questo vortice inestricabile di azioni danzate, cantate, recitate, ‘percosse’, la lezione di Baliani è magistrale.
E non c’è – è altrettanto evidente – lo sforzo intellettualistico di certa musica contemporanea: c’è invece un impatto sonoro sempre viscerale, appassionante, fortemente comunicativo. La scrittura musicale di Montalbetti abbraccia l’ascoltatore con una forza umana e coinvolgente: risultato delle felici esplorazioni nel free jazz, nella canzone popolare, nel rock progressive. La pluralità, tratto distintivo dell’azione drammatica, si incarna nella musica: non mancano nemmeno squarci minimalisti e reminiscenze madrigalistiche, come i garbatissimi omaggi al bresciano Marenzio, sul finale. L’esecuzione è affidata all’esperta bacchetta di Carlo Boccadoro e all’ensemble “Sentieri Selvaggi”: una vera garanzia quando si parla di qualità timbrica e versatilità. Duttili come strumenti orchestrali ma non prive di personalità e spessore, le sei voci del coro “Costanzo Porta” di Cremona.
Non c’è infine quel rischio retorico, sempre un po’ temuto in occasioni come queste, di ritrovare davanti agl’occhi le immagini della strage che la televisione ci ha abituato a riconoscere. La regia video di Alina Marazzi possiede quella rara capacità di esprimere l’orrore, il cordoglio, la sofferenza con tatto, con pudore, con sensibilità encomiabili, conservando tuttavia la forza comunicativa di certi documenti dell’epoca. Uno sforzo che è valso ad ‘ammorbidire’ i punti più critici del libretto, nei momenti in cui si esprime con toni fin troppo enfatici. Uno sforzo, inoltre, che intelligentemente contribuisce a dare all’opera un respiro più ampio: non confinata nei portici di piazza della Loggia, Il sogno di una cosa diventa l’occasione per parlare dello stragismo in tutte le sue declinazioni. «Ricomposizione dell’infranto», la definisce Montalbetti: un percorso metaforicamente inverso alla disgregazione caotica della violenza, allo scempio distruttivo dell’atto terroristico. Una riflessione sulla contemporaneità che non ha nulla di banale: questo è quel che c’è ne Il sogno di una cosa.
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