di Luca Chierici
Come sostituzione dell’ultima ora a causa dell’annullamento del previsto recital del pianista Daniil Trifonov, la Società del Quartetto è riuscita a recuperare per i propri abbonati la sempre benvenuta Maria João Pires. La pianista portoghese, nonostante i tentennamenti che da anni la spingono a dichiarare di volere interrompere la carriera militante – a settantasette anni se lo potrebbe anche permettere – ha incantato il pubblico in una misura che forse non era del tutto prevedibile, offrendo una serata di intensità tale da rimanere ben ferma nei nostri ricordi.
Non era solamente la sorpresa di trovarsi di fronte a una pianista ancora in possesso di quasi tutti i propri mezzi tecnici, ma soprattutto si è trattato di una lezione alternativa di magistero interpretativo che le fa davvero onore e che, in quanto a bellezza di suono e capacità narrative di fraseggio non ha oggi davvero eguali.
Lo si è capito fin dall’incipit della sonata in la maggiore di Schubert, la D 664 nota anche come opera 120, pubblicata postuma nel 1829, un lavoro erroneamente catalogato come “facile” all’interno delle consuetudini conservatoriali ma che nasconde in realtà una insidia di fondo richiedendo legati continui di un tessuto melodico che poggia su un tema ad ampi intervalli e, nel finale, passaggi rapidi di agilità per nulla agevoli. La Pires ha davvero raccontato al pubblico un programma ideale e non scritto che potrebbe benissimo essere alla base di questo capolavoro e lo ha fatto con le armi di una apparente semplicità che lasciava davvero disarmati. Se un poco meno nelle corde della pianista è sembrata la Suite bergamasque di Debussy, anche in questo caso ha avuto la meglio il fascino di un approccio del tutto personale e la ineffabile dizione del famoso Clair de lune.
Ci si sarebbe attesa a questo punto una esecuzione quasi trattenuta di un testo così impegnativo quale è l’ultima Sonata di Beethoven, ma la Pires ha sfoderato un volume di suono e una perentorietà stilistica assoluta tale da dominare un testo cui si è recentemente dedicata con passione di studio e di ripensamenti. Alla fine era il corpo minuto della pianista a vibrare esso stesso con i trilli prolungati che diventano un elemento costruttivo dell’ultima parte della sonata, segno di una immedesimazione con lo strumento che non ha confronti e che in passato ha potuto forse essere preannunciato dall’arte della grande Clara Haskil.
Il successo di pubblico è stato grandissimo e la pianista si è lungamente inchinata di fronte alla platea profondendosi in ringraziamenti. E sicuramente tali ringraziamenti andavano intesi soprattutto verso gli autori da lei presentati nel corso della serata – prezioso il bis del secondo movimento della Patetica beethoveniana – perché è nei confronti della Musica che la grande artista si è sempre spesa nel suo lavoro di una vita, in un atto d’amore che è chiaramente percepibile attraverso le sue esecuzioni.