Grandi Voci • L’incontro con il mezzosoprano triestino: i suoi ruoli nell’anno verdiano, la vocalità, la carriera
di Ilaria Badino
Daniela Barcellona, mezzosoprano triestino assurto a fama internazionale nel 1999 quando furoreggiò nel personaggio di Tancredi al Rossini Opera Festival, dopo quindici anni di carriera schiettamente belcantistica (tanti Bellini e Donizetti, un pizzico di Mayr e di Meyerbeer ma, soprattutto, il nume tutelare Rossini a volontà), vive ora una propizia fase di transizione che la sta portando ad allargare le prospettive verso scritture più liriche e compositori più tardi, Verdi su tutti. Nell’anno delle celebrazioni dei duecento anni dalla nascita del Cigno di Busseto, infatti, la Barcellona ha debuttato Mrs. Quickly in Falstaff al Teatro alla Scala in un effervescente allestimento di Robert Carsen in coproduzione con la Royal Opera House ed il Metropolitan; canterà più volte la da lei già rodata parte mezzosopranile nella Messa di Requiem; sarà nuovamente Amneris a tre anni dal debutto. E si concederà un altro piccolo sfizio verdiano. Sotto il segno della riconquista della propria femminilità, dopo anni in cui aveva dovuto reprimerla sotto i gravosi drappi dei suoi pur tanto amati eroi tragici. Senza, tuttavia, mai perdere l’eleganza e l’incisività di un fraseggio vario tipiche del Belcanto.
Nel gennaio 2010 la sua avventura verdiana era ancora tutta da intraprendere, con il sano timore ed il grande entusiasmo che con sé portava. Ora i debutti come Amneris in Aida, Mrs. Quickly in Falstaff ed Eboli in Don Carlo sono avvenuti: come giudica l’inizio di questo cammino?
«Molto positivamente: è senz’altro un percorso che mi sta dando grandi soddisfazioni, che mi sta facendo scoprire nuovi aspetti della tecnica e sviluppare la voce in un modo che sento a me consono. La cosa fondamentale è che si tratta di un repertorio che non mi stanca, a differenza di Rossini, il quale a mano a mano che si va avanti con gli anni diventa sempre più difficile da affrontare».
Si riferisce ad una stanchezza a livello fisico o mentale?
«Ad entrambe. Rossini, nel bene e nel male, ti costringe ad un canto fisico; il corpo è elastico quando si è giovani, ma, via via che si procede con l’età, fisiologicamente esso diventa sempre meno pronto allo scatto, all’agilità. Ovviamente c’è poi chi riesce a gestire questa tipologia canora fino in età più avanzata, che è poi quello che, personalmente, sto facendo. Ma una volta saggiato il repertorio comunemente ritenuto pesante (Didon nei Troyens di Berlioz, Amneris, la parte mezzosopranile nella Messa di Requiem verdiana, che canto da molti anni e che, sebbene sia musica sacra e non operistica, rende molto bene l’idea di ciò che è la scrittura verdiana, fino alle più recenti Eboli, debuttata un anno fa, e Quickly, fresca presa di ruolo alla Scala lo scorso gennaio), quando per me è Rossini stesso, forse al di fuori di una logica condivisa, ad esserlo, ho constatato che la mia voce ha avuto modo di crescere. Le esigenze che ho adesso sono quelle di un canto spiegato, più libero, meno di coloratura. Mi rendo conto che, affrontando Rossini adesso, mi stanco molto più facilmente di prima. Ritengo quindi di stare assecondando il naturale sviluppo delle richieste vocali e fisiche caratterizzanti questo momento della mia vita».
Tra le parti verdiane, con quale da sempre avrebbe voluto più fortemente debuttare?
«Senza dubbio Amneris: a livello sia di carattere che di scrittura musicale, è il sogno nel cassetto che coltivo sin da quando ho cominciato a conoscere l’opera. Forse anche perché Aida è una delle opere italiane più conosciute ed amate dagli italiani stessi, viene sentita con un’intensità particolare. E poi la principessa egizia detiene una delle frasi chiave dell’opera, “L’aborrita rivale a me sfuggia”, particolarmente bella ed intensa».
Come si è preparata per questi nuovi approcci?
«Solitamente, quando devo affrontare una nuova parte, oltre all’immancabile studio dello spartito ascolto le registrazioni che mi hanno preceduta per entrare nell’essenza del personaggio. Forse, anche presuntuosamente, mi capita di pensare che io avrei voluto e potuto eseguire una certa frase in modo diverso rispetto a quello proposto dall’interprete del disco, attribuendo quindi ad essa un significato differente. Altre volte, invece, prendo spunto da chi mi pare concepisca determinati momenti musicali come li percepisco io e la cui interpretazione, oltre a sembrarmi appropriata, ritengo s’attagli bene su di me».
Si riferisce a mezzosoprani nello specifico?
«Sono stata molto vicina a Giulietta Simionato, che ho davvero adorato come cantante prima e come donna dopo, avendola conosciuta nel 2001. Fu lei a dare vita al nostro rapporto, chiamandomi per complimentarsi con me per una Cenerentola, registrata con i complessi di Santa Cecilia, che aveva visto la sera prima in televisione: stavo svenendo al telefono! Anche all’interno del repertorio che sto affrontando adesso mi rispecchio molto nel suo modo di affrontare i personaggi. Per esempio, non possiamo forse definire le sue Amneris ed Eboli belcantiste, ma certo nemmeno veriste, come invece di frequente sono state interpretate in seguito ad un travisamento, nato nel ventennio fascista, del compositore bussetano per venire incontro all’esigenza superomistica, cui, nel mondo della lirica, ha fatto da contraltare quella del supercantante. L’interpretazione della Simionato dei ruoli mezzosopranili verdiani è particolarmente affine al mio modo di sentire questi spartiti. Giusto due giorni fa ho voluto ascoltare la sua Eboli, proprio per ritrovare un riscontro in qualcosa di affine alla mia sensibilità».
Tra i suoi recenti debutti, qual è quello che le ha provocato maggiore ansia?
«Sicuramente il primo ruolo operistico verdiano affrontato, per cui sempre Amneris, che ho portato in scena per la prima volta non in Italia, ma all’estero, a Valencia. Quando ci si butta in un nuovo repertorio, si è sempre accompagnati dalla paura di non essere all’altezza ed anche da quella – ammettiamolo – di non piacere, dal momento che, ovviamente, si viene giudicati in base a chi c’è stato prima di noi. Ma, facendo leva sulla propria personalità, bisogna sempre ricordarsi che il mondo va avanti e che la necessità di rinnovare è sacrosanta; del resto, credo che sia doveroso per un artista avere dubbi. Poi essi sono stati del tutto fugati: mi sono trovata comoda vocalmente e ho lavorato benissimo con Maazel, con cui inaugurai la produzione valenciana».
Cosa la preoccupa maggiormente di Eboli, invece?
«Penso che sia uno dei personaggi più difficili in assoluto da rendere vocalmente, molto complesso perché si situa quasi ai limiti della tessitura del soprano drammatico. Il mezzosoprano che si cimenta in esso, dunque, non deve davvero lasciare nulla al caso. L’accorgimento principale consiste nello scaricare continuamente la tensione, nel non caricarlo dal punto di vista né vocale né visivo».
Finalmente, dopo tanti ruoli en travesti, troviamo Daniela Barcellona nei panni di una donna. Che cosa dà della sua femminilità a questi personaggi per lei nuovi?
«Innanzi tutto mi svesto del manto maschile che ero costretta ad indossare in precedenza. Dare vita a ruoli virili era assai più faticoso, perché dovevo fare in modo di lasciar trasparire mascolinità sia dal punto di vista corporeo che da quello strettamente vocale. Questo procedimento portava con sé grande dispendio di energie. Ora riesco ad essere più profondamente me stessa, a donare eleganza e regalità che si esprimono attraverso gestualità e movimenti tipicamente femminili. Ciò che nelle parti mezzosopranili verdiane, le quali sono assai di polso e battagliere, ancora mi porto dietro degli en travesti è invece il piglio combattivo e, talvolta, un’autorità fisica che, per esempio, Amneris esercita nei confronti della povera Aida, ma anche dello stesso Radames. Ribadisco comunque la sensazione d’alleggerimento, soprattutto a livello di atteggiamento mentale, nell’affrontare le nuove parti verdiane così come Didon – che ho recentemente interpretato a Berlino – o Adalgisa in Norma, di essermi liberata dalla fatica di usare una muscolatura che non è la mia naturale».
È pur vero che, data l’imponenza dei costumi firmati da Hugo de Ana per la produzione di Don Carlo che state portando in scena al Teatro Regio di Torino, il personaggio, maschio o femmina che sia, ha possibilità di movimento spesso limitate…
«Proprio così. Abbiamo perciò fatto leva su pochi, lenti ma assai precisi gesti, di modo che essi risultassero il più incisivi possibile. Poi, com’è normale, capitano inconvenienti come quello accorso a me nella «Canzone del velo», nel finale della quale la stola che indossavo, attestatasi in una posizione diversa da quella accordata in prova, mi ha obbligata a lanciare il fazzoletto in una maniera non studiata in precedenza. Fortunatamente è giunto comunque a destinazione! In casi come questo suppliscono l’istinto scenico e l’esperienza».
Veniamo alla sua attività discografica. Il suo ultimo album da solista è dedicato a Pergolesi. Come giudica il suo rapporto con il compositore jesino?
«Sono stati scelti dei brani molto belli ma esclusivamente virtuosistici; non sono stati contemplati pezzi riflessivi. La soddisfazione è risieduta soprattutto nell’incarnare personalità volitive di guerrieri, musicalmente contrassegnate da uno slancio tipicamente barocco, e nel prodursi in variazioni. Mi spiace un poco che quest’incisione sia arrivata verso la fine della mia esperienza all’interno del repertorio barocco; tuttavia, sebbene avessi preferito fosse giunta prima, devo ammettere che me la sono goduta molto. La scrittura pergolesiana, poi, è straordinaria; non saprei scegliere un’aria nello specifico, mi sono piaciute davvero tutte moltissimo. Anche perché quando si ascolta un pezzo si rimane più in superficie di quanto non si faccia appropriandosene tramite lo studio delle cause testuali e musicali, le quali portano a determinate reazioni e riflessioni, alla realizzazione di variazioni che si attanaglino alla resa psicologica del determinato momento musicale… A differenza del mio precedente cd pubblicato dalla Sony, quello dedicato a Scarlatti, nel quale quasi tutte le arie erano prime registrazioni, questo contiene pochi inediti, ma ritengo che comunque abbia contribuito ad una spinta verso una rivalutazione più globale del compositore marchigiano. Constato con gioia che le operazioni di riscoperta di capolavori sommersi per secoli in qualche biblioteca stanno riscuotendo grande successo: c’è bisogno di questo coraggio di riportare alla ribalta tanta bella musica vecchia ma, di fatto, nuova».
Il suo discorso mi porta alla mente il payoff del Corriere Musicale: «La chiamano classica, ma è sempre contemporanea».
«Sono d’accordo! E da qui si potrebbe innestare un lungo discorso sulla funzione dell’interprete il quale, pur rimanendo fedele ai dettami del compositore, ha il dovere di modernizzare e di coinvolgere il pubblico odierno nell’ambito della musica classica. Esso ha infatti bisogno di interpreti visivamente ed acusticamente molto più presenti che in passato, quando la tendenza era quella di accontentarsi di chi s’esibiva magari sì in funambolismi, ma stando fermo sulla scena (fatti salvi quei cantanti che sono stati veri e propri precursori per mezzo del loro atteggiamento rivoluzionario nei confronti degli spettatori)».
In maniera anche commisurata alle evoluzioni (o involuzioni) del bacino d’utenza, delle dimensioni della sala…
«Certo. E va inoltre considerato il fatto che, al giorno d’oggi, al teatro tradizionale s’è sostituito un cinema dotato di straordinari effetti speciali, per cui chi va all’opera ricalca l’esigenza – non so se giustamente o meno – di assistere ad uno spettacolo che, tramite un notevole impatto visivo, trasmetta forti emozioni. È il caso di questo Don Carlo torinese, cui il fasto è garantito dalle bellissime scene di Hugo de Ana; esso è però in controtendenza rispetto alla direzione attuale: risparmio ad oltranza a discapito dell’attrattività generale. Difatti, non di rado succede che chi non è catturato da ciò che vede sia poco stimolato anche al mero ascolto e che, viceversa, chi riceve un input dalla vista trasferisca il proprio interesse anche all’udito. Tirando le fila del discorso, come cantante mi sento investita della responsabilità di veicolare un importante messaggio, principalmente nei confronti dei giovani: quello, cioè, che la musica classica detiene tutte le caratteristiche per toccare le corde del cuore e, quindi, per essere ancora attuale».
Cosa ci dice riguardo alle sue prossime pubblicazioni discografiche?
«Sono da poco usciti i dvd di Sigismondo e di Adelaide di Borgogna, risalenti rispettivamente alle edizioni 2010 e 2011 del Rossini Opera Festival di Pesaro. Dovrebbero poi essere pubblicati il dvd di questa produzione torinese di Don Carlo e – ma siamo nel campo dell’ipotetico – il cd dell’ultima edizione scaligera della Donna del lago, con, oltre a me, Joyce DiDonato, Juan Diego Flórez e John Osborn».
E a livello d’impegni teatrali, invece?
«A brevissimo ci sarà La donna del lago al Covent Garden, che tra l’altro segnerà il mio debutto presso la prestigiosa istituzione londinese; poi verranno Aida e il Requiem di Verdi all’Arena di Verona, lo Stabat Mater di Rossini diretto da Noseda negli Stati Uniti, una tournée in Giappone con la Scala, in cui sarò presente sia in Falstaff che in Aida, il Requiem verdiano diretto da Muti a Chicago. Per quanto concerne il 2014 sarò, tra l’altro, a Pechino per L’italiana in Algeri e alla Scala nei panni di Didon nei Troyens (debutto operistico di Antonio Pappano presso il teatro milanese, ndr). Poi… ammetto che non mi ricordo più!»
Beh, se non ci sono stati sommovimenti dell’ultim’ora, dovrebbe esserci anche una sua parziale Azucena, sempre all’Arena di Verona tra qualche mese, giusto?
«Sì, in forma di concerto, soltanto il quarto atto».
… Foriera di una presa di ruolo completa a breve?
«Per adesso non penso. Forse più in là. Ho bisogno di maggiore maturità per affrontare Azucena – parte molto cruda a differenza, per esempio, di Eboli, che mantiene una certa levigatezza belcantistica – perché c’è il pericolo di rimanere troppo coinvolti nel personaggio. Mi è già stata chiesta parecchie volte, ma ho sempre declinato: voglio prima studiarla approfonditamente per averne totale cognizione di causa ed imparare a separarne il piano umano da quello interpretativo».
Modelli, colleghi particolarmente stimati nella contemporaneità?
«Per quanto riguarda Rossini, Rockwell Blake. Ho tratto spunto dai suoi fiati eterni; vedendolo ed ascoltandolo, ho quasi assorbito questa sua capacità. Esistono alcuni cantanti che promanano una perfezione tecnica ed un’attitudine interpretativa talmente affascinanti che con loro scatta una specie d’empatia. Successe una cosa analoga con Marcelo Álvarez, quando, entrambi all’inizio della carriera, facevamo parte del secondo cast della Traviata alla Fenice; con personalità che hanno fatto la storia dell’opera come Leo Nucci e Mariella Devia, che ho avuto dapprima modo di ammirare come appassionata spettatrice e che ho poi avuto l’onore ed il piacere di ritrovarmi accanto come colleghi ispiratori, dispensatori di energie positive. Le collaborazioni con i grandi (e mi riferisco anche a direttori d’orchestra come Rostropovič, Barenboim, Muti, Abbado) lasciano il segno, da esse è bello e fruttuoso trarre insegnamento. La luce che essi emanano è qualcosa di paranormale, ci si sente davvero privilegiati a poter imparare da loro. Altri artisti che stimo molto e con cui ho avuto spesso modo di collaborare sono Ildar Abdrazakov, Barbara Frittoli (rispettivamente Filippo II ed Elisabetta di Valois nell’edizione torinese di Don Carlo appena terminata, ndr), Juan Diego Flórez… Ne sto dimenticando molti altri, e spero non me ne vogliano, ma sono davvero tanti!»
E per quanto riguarda le sue compagne di corda di oggi?
«Sono molto amica di Sonia Ganassi, con cui per anni ho condiviso il repertorio rossiniano; ammiro Dolora Zajick, una persona ed un’artista di grande spessore, sebbene le nostre formazioni siano piuttosto diverse. Ho da poco conosciuto, a Berlino, Ildikó Komlósi, con cui sono entrata subito in grande sintonia, anche per il fatto che con gli altri mezzosoprani è più facile che emergano, come argomento di conversazione, le problematiche comuni della nostra vocalità».
A tal proposito, quale pensa che sia la problematica più rilevante che affligge la vocalità mezzosopranile, quella nei confronti della quale il pubblico si mostra più suscettibile a fraintendimenti?
«Le dico una cosa per la quale so che mi farò nemiche molte colleghe. Ha presente la pubblicità che ha come motto «Ti piace vincere facile?»? Ecco, sto constatando che i soprani, riallacciandosi a certa tradizione del passato, stanno appropriandosi di molte parti che dovrebbero essere appannaggio dei mezzosoprani, proprio perché un maggiore agio nell’acuto consente loro di furoreggiare con più facilità, di trovare un riscontro di pubblico più immediato, con la conseguenza nefasta che a noi mezzosoprani viene richiesto un fraseggio sopranile che però non possiamo garantire (possiamo arrivare a certi limiti di tessitura ben determinati da un confine superato il quale ci si strozza, si schiarisce la voce, si schiaccia il suono). I direttori d’orchestra che non conoscono le specificità della nostra corda e le differenze che intercorrono tra di essa e quella sopranile – e fortunatamente non sono molti – pretendono cose tecnicamente impossibili: un mezzosoprano presenta un certo tipo di volume e di spessore della voce, per esso non è pensabile prodursi in raffinatezze in zone acute come, ad esempio, un filato su un Do o su un Si naturale. Prendiamo in considerazione Rosina del Barbiere di Siviglia; io ormai mi considero fuori da questi giochi, dato che non canto più massicciamente questo ruolo, ma il caso mi sembra particolarmente emblematico. Rossini volle una voce grave per interpretarla, dato che si tratta sì di una ragazzina, ma già assai scaltra; poi fu approntata anche una versione sopranile, e le voci acute che l’hanno portata in scena hanno farcito la parte di sovracuti e di picchettati, i quali, perché particolarmente d’effetto, sono attesi dal pubblico anche da parte di un mezzosoprano. C’è quindi talvolta una mancanza di conoscenza vocale e stilistica da parte di chi è incaricato di scegliere i cast, poi di chi li dirige ed infine di chi fruisce dell’opera. Ai tempi della Simionato quest’atteggiamento veniva bandito. Non è pensabile cantare tutto, la specializzazione è necessaria. Possedere le note di una determinata parte non significa poterla portare in scena: è come se io un giorno mi mettessi a cantare Eboli e quello seguente Elisabetta. Oppure guardiamo all’esempio di Carmen: ritengo fermamente che sia un ruolo da mezzosoprano, dal momento che, quando essa canta nel registro centrale – dove risiedono il suo impianto e la sua impronta più autentica – l’orchestra è molto presente. Scegliendo un soprano si avranno sicuramente acuti più comodi, ma si perderà il corpo nella zona mediana. Mi pare che a volte oggi si dia la priorità a fattori secondari rispetto a quello principale, il quale altro non è che la vera motivazione secondo cui una determinata parte è stata scritta per una specifica vocalità».