Lo spagnolo si aggiudica il primo premio alla diciottesima edizione del concorso pianistico di Santander presieduto da Gary Graffman
di Luca Chierici foto © Elena Torcida
NELLE SESSIONI FINALI DI UN CONCORSO si accumula sempre un certo nervosismo tra i partecipanti, ovviamente, ma anche tra il pubblico che ha seguito tutte le fasi della manifestazione e tra i membri della giuria che si trovano a vedere confermate o meno le proprie impressioni iniziali. L’esperienza e un certo fiuto permettono di rendersi conto in tempi sufficientemente brevi della situazione, pur capitando a Santander, dove si svolge la diciottesima edizione del Premio “Paloma O’Shea” solamente nel momento delle finali con orchestra e dopo avere sbirciato con i potenti mezzi della Rete i video clip delle prove precedenti. Non ci vuole molto per capire che l’unico concorrente spagnolo giunto in finale abbia personalità da vendere, sfoderi una sicurezza fin troppo esibita, suoni molto bene e abbia quindi tutte le carte in regola per un primo premio.
Anche il coreano Huh (attenzione, ha già 30 anni, un’età forse eccessiva per partecipare a una competizione di questo genere) si mangia in un boccone – lo diceva Rachmaninov del giovane Horowitz che si era appropriato del “Rach3” – il difficile Terzo concerto di Prokof’ev raggiungendo un risultato di tutto rispetto. Gli altri concorrenti ascoltati inciampano in un “Imperatore” piuttosto noioso o pasticciano le scale e gli arpeggi velocissimi del quarto di Beethoven. Mai portare questo concerto insidiosissimo nel programma di un concorso; in tanti anni di ascolto abbiamo sentito qui perdere il controllo anche a pianisti celebri per la loro tecnica infallibile.
Nella serata della premiazione – i lettori avranno capito che il primo premio di 30.000 euro è andato al concorrente spagnolo Juan Pérez Floristán – tutto è predisposto per accrescere l’ansia dell’attesa. Prima i saluti delle autorità, poi la strana scelta di fare eseguire ai sei finalisti l’Ouverture dal Guillaume Tell di Rossini in una trascrizione a quattro mani costringendo i poveri pianisti a scalzarsi dal seggiolino a colpi d’anca ogni due minuti. Sarebbe stato meglio, a questo punto, scegliere una trascrizione a 12 mani (tre pianisti per due pianoforti) che esisterà certamente o si può estrapolare facilmente da quella a quattro mani. Poi la premiazione, iniziando dal premio speciale “Canon” del pubblico che va già profeticamente a Floristán, parte poi dal sesto premio per risalire al secondo, momento in cui si capisce definitivamente chi ha conquistato il sospirato alloro.
Contrariamente agli altri vincitori, che si siedono per qualche minuto al pianoforte spesso pasticciando i poveri studi di Chopin, Floristán suona la Danza de La Moza Donosa di Ginastera con una malinconia che ci ricorda Michelangeli quando si avventurava in Albeniz o Mompou e conferma quindi la propria intelligenza musicale e la propria sensibilità. Un cocktail finale sulla terrazza che si affaccia sulla splendida baia della città – è finalmente tornato il sole dopo alcune giornate uggiose – e qualche parola scambiata con il presidente della giuria, l’ultranovantenne Gary Graffman che avevamo ascoltato a Milano quasi quarant’anni fa suonare di fila le quattro Ballate, un’impresa che a quei tempi non era affatto usuale, completano la breve ma intensa visita nella città spagnola, con il ricordo di un Premio pianistico perfettamente organizzato – speciale menzione ai bravi e preparatissimi responsabili della Steinway, Gerrit Glaner e Patrick Hinves – e di una partecipazione di pubblico straordinariamente intensa.