di Alberto Bosco foto © Javier del Real
È arrivata anche a Madrid l’onda della riscoperta di Francesco Cavalli, il prolifico operista del Seicento formatosi a Venezia sotto l’influenza di Monteverdi e autore di una trentina di lavori per il teatro che costituiscono un documento importante per la ricostruzione dei primi sviluppi del genere. Per questo suo battesimo il Teatro Real ha scelto giustamente La Calisto, opera del 1651, già riscoperta negli anni Settanta del secolo scorso e poi in altre versioni più filologicamente curate. La Calisto fu il primo titolo pubblicato nel 2012 dalla casa editrice Bärenreiter per la sua edizione critica delle opere di Cavalli. Inoltre, il lavoro editoriale sulla partitura (quello sul libretto è a cura di Nicola Badolato) si deve ad Álvaro Torrente, professore di musicologia nella locale Università Complutense. C’era dunque curiosità e interesse per questa produzione, un interesse titillato dalla promessa di una regìa piccante e provocatoria quale quella che David Alden aveva creato per Monaco nel 2005 e ripresa per l’occasione. La Calisto, infatti, ha una trama ricca di equivoci e travestimenti che ravvivano l’intricata ed aulica vicenda mitologica con molti spunti comici e caricaturali.
La struttura drammaturgica dell’opera è in realtà riassumibile in poche parole. Ci sono due vicende principali che si sfiorano, accomunate dalla presenza di un eros libero e capriccioso. La prima è l’infatuazione di Giove per la vergine ninfa Calisto, che porta il dio a travestirsi da Diana per poterla sedurre; la seconda è l’amore del pastore Endimione per la vera Diana, amore ricambiato in modo esplicito solo nel finale. Entrambe queste traiettorie del desiderio hanno due forze che le ostacolano: per la coppia Giove-Calisto si tratta di Giunone, la cui ira porterà alla punizione e poi alla trasfigurazione della ninfa, assunta in cielo come costellazione dell’orsa maggiore; per la coppia Endimione-Diana si tratta del manesco Pan (nel libretto, Pane) che, accompagnato da una sua banda di satiri, vorrà uccidere il pastore per gelosia. A movimentare e unire le due trame sono i frequenti equivoci dovuti al travestimento di Giove in Diana, per cui si creano bizzarri paradossi, quando Calisto, sedotta da un Giove travestito da donna, vorrà ritrovare gli stessi piaceri con la vera Diana, oppure quando Endimione farà le sue avances amorose a Giove, scambiato per Diana. A ciò si aggiunge un terzo registro farsesco che fa da contrappunto a queste vicende, con i due personaggi comici di Linfea, la seguace di Diana smaniosa di essere posseduta, e di Satirino, satiro inesperto e poco prestante, che però riuscirà ad accontentare i desideri della ninfa, e così anche i suoi.
Data la varietà dei registri dell’opera è difficile dire quale sia poi il senso di tutto ciò. Sicuramente il tema neoplatonico di un eros onnipresente che anima i comportamenti di umani, dei e semidei, ma che da pulsione fisica si può e si deve sublimare, è tema centrale. Questo è testimoniato dalla traiettoria dei protagonisti: Calisto, dapprima mossa da appetiti sensuali è poi eternata nell’incorruttibile mondo delle stelle fisse; Endimione, salvato dalle torture degli impetuosi e carnali satiri concluderà così la sua dichiarazione d’amore alla casta Diana: «Il bacio, il bacio basta/ad amatore onesto;/il bacio sol desio, non chiedo il resto./Son del senso signore/né il foco vil m’incenerisce il core». La regìa di Alden, con la sua ambientazione psichedelica, i suoi gesti espliciti e i costumi provocanti, sembrerebbe a primo acchito trascurare l’aspetto spirituale di questo eros, la traiettoria ascendente della trama, ma a ben vedere già dal secondo atto in scena si avverte una certa desolazione, quasi uno squallore che allude alla stanchezza dei sensi e apre la strada alla trasfigurazione del finale.
Detto ciò, l’impressione generale è stata di uno spettacolo visivamente molto curato, dove però il baricentro della regìa è spostato sull’invenzione di allusioni e gag, esagerando quella visione dell’opera veneziana seicentesca come forma di teatro composita, in cui la necessità di attirare pubblico pagante nei teatri spingeva librettisti e compositori a farcire le loro storie classiche con scenette comiche, balli ed episodi a latere. Questo carattere dispersivo, per cui ben presto si smarrisce di vista la traiettoria drammatica dell’insieme, non è solo dovuto a una regìa sovrabbondante, preoccupata di mantenere desta l’attenzione dello spettatore, ma è attribuibile alle limitazioni del linguaggio musicale della metà del Seicento, che, per quanto raffinato, non ha ancora in sé quelle potenzialità drammatiche necessarie per strutturare musicalmente una vicenda in scene di ampio respiro, inanellate in modo consequenziale, ma procede invece per piccoli passi e campate ridotte. Questa particolarità musicale costituisce anche il fascino di questo tipo di teatro d’opera, rispetto ad esempio all’opera settecentesca, armonicamente, strumentalmente e vocalmente assai più articolata, ma prigioniera di certi schematismi. L’opera seicentesca in confronto è molto meno ideale e più concreta, legata alla declamazione della parola o ai ritmi di danza, e per questo, come è il caso della Calisto, non ha bisogno di molto di più che un basso continuo per accompagnamento.
Il senso di libertà, di imprevedibilità che si sprigiona da opere come queste sarebbero senz’altro una piacevole aggiunta al repertorio dei teatri se solo, dunque, i cantanti facessero la loro parte incarnando nella loro voce il dramma rappresentato, visto che le strutture musicali non sono così vincolanti come lo saranno in futuro. Questo purtroppo non si è verificato ed è il motivo per cui, nonostante le stimolazioni visive delle scene e dei costumi, lo spettacolo della durata di quasi tre ore si è fatto un poco noioso. Dei tanti cantanti in scena, si può dire che abbiano veramente cantato solo il bravissimo Luca Tittoto nella parte di Giove, Andrea Mastroni, nel ruolo minore del satiro Silvano, e Tim Mead come Endimione, quest’ultimo con tutte le limitazioni della voce di controtenore. Negli altri, problemi di dizione, scarso volume di voce, abuso di falsetto, emissioni artificiose (e non si parla qui delle grottesche manipolazioni per fini comici degli efficaci Dominique Visse e Guy de Mey nei panni di Satirino e Linfea) hanno impedito che le linee vocali fossero scandite con naturalezza e che si creasse quel contatto vivo con il pubblico in grado di mantenere in piedi un’opera basata sul recitar cantando. Quanto alla parte strumentale, affidata a due gruppi di specialisti, il Monteverdi Continuo Ensemble e l’Orchestra Barocca di Siviglia, niente da dire, anche se non si può sperare che siano i continuisti, per quanto bravi nel fiorire gli accordi, a tenere desta l’attenzione su quello che avviene in scena. Bravo anche Ivor Bolton nella direzione, anche se certi eccessi di languore, tempi lenti e sonorità evanescenti, alla lunga hanno finito per suonare affettati e poco teatrali.