Il Festival della Valle d’Itria festeggia con successo la quarantesima edizione con il lavoro teatrale di Casella. Direzione musicale di Fabio Luisi
di Luca Chierici
FEDELE A UNA TRADIZIONE diretta in maniera spesso esclusiva al recupero di lavori teatrali che hanno conosciuto l’oblio del tempo, il Festival della Valle d’Itria ha presentato quest’anno una terna di proposte come al solito molto interessanti, che hanno se non altro il merito di richiamare alla nostra attenzione autori e contesti storici oggi poco considerati nel repertorio più diffuso. Se poi, come è accaduto l’altra sera a proposito de La donna serpente di Alfredo Casella, la riscoperta è accompagnata da una messa in scena indovinata, da una lettura vivificante e precisa, dalla presenza di interpreti vocalmente adeguati, ecco che l’operazione si rivela particolarmente preziosa e assai gradevole anche per un pubblico di non specialisti. L’opera-fiaba di Casella che ha degnamente inaugurato la quarantesima stagione della rassegna di Martina Franca puntava l’attenzione anche su un altro aspetto non trascurabile dal punto di vista musicologico, ossia la riconsiderazione odierna dei valori e dei giudizi che hanno accompagnato le reazioni della critica a partire dal momento in cui l’opera stessa conosceva le sue prime rappresentazioni.
La donna serpente nasce tra il 1928 e il 1931 come primo lavoro teatrale di un Casella quarantacinquenne che fino a poco tempo prima, dall’alto della sua esperienza cosmopolita vissuta soprattutto a Parigi (1896-1915), a stretto contatto con personaggi del livello di Fauré, Debussy, Ravel, Mahler, Busoni, si poneva come strenuo difensore della musica strumentale, con una particolare ma non certo limitante predilezione verso il pianoforte. Da buon esponente dell’avanguardia e poi simpatizzante del movimento futurista Casella era stato attratto sin da giovane nel vortice di quella corrente di pensiero che rinnegava, spesso con toni assai sprezzanti, una secolare tradizione italiana votata al melodramma (ancora nel 1913 Verdi veniva definito da Casella un homme d’affaire). Ma neppure Casella poteva sfuggire al fascino del teatro in musica e il suo primo esperimento approda a un complesso pastiche, un rifacimento stilistico nel quale è più facile indicare gli ingredienti mancanti, non quelli che effettivamente traspaiono in base all’ascolto.
La fonte letteraria del libretto rimaneggiato da Cesare Vico Ludovici risale all’omonima fiaba di Carlo Gozzi, autore che proprio in quegli anni (ma con innegabile diritto di precedenza rispetto a Casella) attira l’attenzione di musicisti affatto diversi come Busoni (la Turandot del 1917), Puccini (ancora Turandot nel 1924) e Prokof’ev (L’amour des trois Oranges del 1922). Una fonte che con il suo soggetto del tutto lontano dalle tipiche situazioni teatrali del melodramma ottocentesco si presta molto bene a una lettura che pone in primo piano l’elemento musicale “astratto”, quello che porterà Gianandrea Gavazzeni ad affermare, forse in maniera troppo drastica, che “non esiste un teatro di Casella, ma soltanto musica di Casella applicata ad occasioni teatrali”. Ha ragione senz’altro Fedele D’Amico ad affermare che “Lo schema suggerito dalla fantasia arida e meccanica di Carlo Gozzi doveva indurre per forza a una musica che risolvesse il fiabesco in uno stupore tutto metafisico” e uno dei motivi della complessità (che chiameremmo spesso artificiosità) del linguaggio caselliano sembra qui derivare dalla sua inconscia affinità con uno scrittore che Gadda non esiterà a definire “arzigogolato e barocco”.
La donna serpente conobbe una diffusione assai limitata: dopo la prima esecuzione romana del 17 marzo 1932 e la rappresentazione scaligera di dieci anni dopo, una ripresa in forma di concerto ha luogo nel 1959 a Milano con i complessi della RAI diretti da Previtali, unica registrazione ufficiale che ha permesso fino ad ora un ascolto “reale” da parte di tutti gli interessati. La rappresentazione odierna organizzata dal Festival della Valle d’Itria è stata preceduta solamente da una esecuzione palermitana che risale oramai a trentadue anni fa, voluta da Gavazzeni.
Un conoscitore dei principali lavori strumentali di Casella si trova qui piuttosto disorientato per almeno due motivi. Gli elementi di avanguardia presenti in molte composizioni caselliane, che gli valsero una netta opposizione in Italia da parte del pubblico e di certa critica, sono molto meno percepibili e sicuramente meno dirompenti in un’opera in cui questi elementi risultano essere come ammansiti. In secondo luogo l’ascoltatore si trova di fronte a una creazione che lo spinge inevitabilmente verso il gioco della ricerca delle fonti. E questo esercizio è reso doppiamente difficile per il fatto che questi rimandi sono si citati dallo stesso autore e riferiti a un teatro “che avrebbe avuto le sue basi nel Falstaff e in Rossini, Mozart, Haendel e magari Monteverdi”, ma oggi le analogie musicali che colpiscono in maniera più diretta sono quelle relative al già citato capolavoro pucciniano e all’allora relativamente lontano, indovinatissimo frutto della collaborazione tra Strauss e Hofmannstahl, quell’Ariadne auf Naxos nel quale il gioco delle maschere – elemento non certo secondario della fiaba di Gozzi-Lodovici-Casella – si lega in maniera irripetibile al contesto narrato sia nel Vorspiel che nell’Atto ambientato nella remota isola greca. Se a queste analogie aggiungiamo qualche elemento tipico di quel richiamo all’italianità (le fanfare di ottoni) che si può far risalire ai poemi sinfonici di Respighi e a certi passaggi di violoncelli che ricordano il tanto amato Mahler, ecco che il quadro delle contaminazioni si fa ancor più complesso e porta inevitabilmente a sottolineare, per La donna serpente, la definizione di pastiche con il conseguente sospetto di scarsa originalità di idee da parte dell’autore.
In ogni modo il disegno complessivo dell’opera e in particolar modo il rapporto musica-parola così discusso dagli esegeti storici della Donna serpente è stato risolto con grande abilità grazie al lavoro congiunto di un direttore sensibile come Fabio Luisi, legato al Festival da un pluriennale rapporto di amicizia e dal regista Arturo Cirillo che con l’aiuto delle scene di Dario Gessati e dei variopinti costumi di Gianluca Falaschi ha felicemente raggiunto il traguardo di una visione unitaria non facile da realizzare. Al disegno generale hanno ovviamente contribuito le presenze di interpreti vocali abituati a muoversi nelle variegate espressioni del canto e del declamato: esiti di particolare bellezza ha raggiunto Zuzana Marková (Miranda) alla quale sono riservati i momenti se possibile più intimistici dell’opera, che culminano nel lamento dell’atto terzo. Ma ugualmente lodevoli si sono rivelati Angelo Villari (Altidor), il quartetto delle maschere (Simon Edwards, Domenico Colaianni, Pavol Kuban, Timothy Oliver), e gli altri interpreti tutti. Un ruolo decisivo a commento dell’azione scenica è stato sostenuto dai bravissimi danzatori della Fattoria Vittadini, quest’anno davvero protagonisti in tutte e tre le opere principali in cartellone. Va dato infine atto all’Orchestra Internazionale d’Italia, qui al gran completo, di aver risposto in maniera professionale ed entusiasta alle non facili richieste sottintese dalla partitura.
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