Presentata in prima italiana la coproduzione francese (Strasburgo-Lille) dell’opera di Janáček, affidata alla direzione di Jan Latham-Koenig e guidata dalla sapiente regìa di Robert Carsen
di Attilio Piovano foto © Frédéric Godard | Ramella&Giannese
PER QUANTO SINGOLARE POSSA APPARIRE, al Regio di Torino La piccola volpe astuta di Janáček — tra i massimi operisti del ’900, ancora troppo poco conosciuto e apprezzato nelle nostre contrade — mai era stata rappresentata. E dire che si tratta di partitura dalla straordinaria ricchezza musicale e dalla singolare bellezza, nonché capolavoro assoluto di finezza e introspezione psicologica, rappresentata per la prima volta a Brno nel novembre del 1924.
Al Regio è andata in scena a partire dalla sera di martedì 19 gennaio 2016 (seguita da sole quattro repliche) nell’allestimento di lusso dell’Opéra national du Rhin (Strasburgo) in coproduzione con Opéra de Lille. La regìa è del ‘mago’ Robert Carsen ripresa da Stefano Simone Pintor e si tratta di una prima italiana. Scene e costumi di Gideon Davey, in bilico tra realismo e fiabesco (con un’ovvia prevalenza di fulvo per le volpi figuranti che si muovono su dolci e degradanti colline ritratte nelle varie stagioni dell’anno, rese con semplici espedienti, le foglie, la neve e via elencando); ottime le variegate coreografie di Philippe Giraudeau, valide e perfettamente funzionali le luci dello stesso Carsen e di Peter Van Praet. Sul podio il britannico Jan Latham-Koenig che di Janáček è uno dei massimi esperti.
Molto diversa dall’Affare Makropulos, e così pure dagli altri celebri titoli dell’autore moravo (specie Jenůfa, Kátia Kabanová e Da una casa di morti), La piccola volpe astuta è un delicato apologo panteistico, ovvero, per così dire, pseudo filosofico, se non addirittura esistenziale, sulle debolezze dell’animo umano; sulla forza dirompente dell’amore e dell’eros e altro ancora; un’allegorica metafora dell’esistenza e non certo una fiaba per bambini in senso tradizionale. Sicché presentarla, come fa il Regio, entro un pacchetto di favole ‘per sognare ad occhi aperti’ assieme a pur dissimili titoli quali la rossiniana Cenerentola, La donna serpente di Casella e Pollicino di Henze, può apparire discutibile o quanto meno destabilizzante.
Un’opera — questa — nella quale le contraddizioni e i tormenti degli umani e delle umane talora meschine e prosaiche vicende, ma anche i sentimenti, i sogni e le aspirazioni (quelle più alte e pure — «non il corpo, ma la tua anima io amo» e quelle più basse e sordide) vengono esplicitate attraverso la mimesi degli animali; grazie a un libretto tra l’altro di estrema linearità, semplice eppure efficacissimo: in ammirevole equidistanza tra idillio e realismo, con gli animali antropomorfi che interagiscono con gli umani riverberandone le inquietudini e le paure ancestrali, la rabbia, la crudeltà e le cattiverie come pure gli slanci e le effusioni, in un singolare mix di eros, comicità e nostalgia. Né manca un tocco di intellettualistico humour, ad esempio laddove compaiono, per cèlia, addirittura citazioni in greco e latino. Un’opera che è la mimesi della vita stessa dove toni drammatici e momenti tesi si alternano a lepide arguzie, ironia ed affettuose, smagate dolcezze; e ancora: tenerezza, strenua voglia di vivere e senso immanente della morte vi convivono magicamente.
E allora alcuni momenti (per lo più onirici, ma non solo) si rivelano salienti, dopo l’inizio dalla singolare fluidità e dalla fresca inventiva armonica; una partitura, quella della Volpe, innervata di brio e poliritmie dalla singolare aderenza testuale alla particolare prosodia cèca (tanto da richiedere, per quel suo declamato continuo, necessariamente specialisti di madrelingua) con passi talora cameristici, talaltra scintillanti, volti ad evocare con efficacia il mistero della natura. Per dire, il momento in cui la piccola volpe sogna di essere diventata una donna, e dunque l’emergere prepotente delle pulsioni affettive è uno dei punti di maggior presa del primo atto. Più ancora, quei ritmi di marcia, quasi alla Šostakovič, a sottolineare il passo in cui l’indomita volpe aizza le galline a ribellarsi contro la proterva e ottusa tirannia del gallo, rappresentano uno dei tratti più efficaci della partitura; che sul piano drammaturgico, poi, è degna di stare accanto agli apologhi di un Orwell e della sua Fattoria degli animali.
La presenza di danze popolari dal colore squisitamente slavo, cèco o magiaro che dir si voglia insaporisce la partitura di deliziosi pigmenti. Spesso vi si respira un profumo di ingenua fragranza, ma non mancano i tratti improntati invece a crudo realismo, con un retrogusto di disincantato cinismo. E allora ad esempio la scena dell’osteria con l’aitante e un po’ spaccone guardacaccia (in realtà fragile, come tutti i maschi) che punzecchia l’ingenuo e sognatore maestro di scuola, alla presenza del parroco, beone e connivente.
E proprio il maestro di scuola è protagonista di uno dei momenti più poetici della partitura, striata da un’amarezza di fondo, inteso ad evocare il mistero della notte e nel contempo volto a delineare le oniriche fantasticherie amorose di un uomo non più giovane, deluso dalla vita, di certo dall’animo limpido. Tra i momenti più alti, delicati e poetici lo scoccare della scintilla tra la volpe e l’affascinante volpacchiotto Zlatohřbítek (ottimamente reso sul piano registico). Il mistero dell’innamoramento e l’arcana forza della sessualità sono rese con una naturalezza e un senso della poesia che non ha eguali. Il libretto non indulge in particolari melliflui, subito entrando in medias res; la volpe scopre di essere incinta (quanta sapienza nella regìa con quel semplice gesto pieno di tenerezza di accarezzare il ventre ormai pingue da parte della volpe maschio) e allora si giunge presto al matrimonio celebrato dal picchio («gli animali del bosco sono molto pettegoli», nota la volpe con vistosa allusione agli atteggiamenti umani), col discendere dall’alto di volatili in un clima surreale e fiabesco.
Carsen modifica la scena della radura in autunno a mezzogiorno delineando un panorama algido e innevato, con felice intuito, per la scena dell’astuzia umana che colloca con perfidia una trappola. La partita tra volpe e umani conosce momenti alterni, ma da ultimo la piccola volpe viene uccisa da Harasta, trafficante di pollame, e la musica sottolinea con enorme efficacia la tragicità del momento. Più ancora Janáček si rivela maestro nel delineare la psicologia dell’ingenuo e timido maestro di scuola che, un po’ brillo, aveva confuso la volpe nascosta dietro a un girasole con la misteriosa zingara Térynka, l’amata lontana «bella e selvaggia» e ora piange alla notizia che costei sta per sposarsi. Non è casuale che a uccidere la volpe sia colui che si accinge a sposare Térynka, archetipo femminile, ferino e ammaliante, cui soggiacciono le fantasie erotiche di tutti gli uomini presenti nella vicenda, dal maestro al guardacaccia, financo al parroco stesso.
Il ritorno della primavera è reso magistralmente dalla regìa col rapprendersi della neve che tutto ricopriva, ed ora a poco a poco si ritira ‘a vista’ e allora, quasi a sottolineare l’eterno avvicendarsi delle stagioni, il prato torna verde come nell’estate iniziale (ma Carsen in realtà apriva nel segno dell’autunno con foglie ramate che richiamano i colori delle volpi). La rievocazione della natura, dei bei giorni passati e il sonno del guardacaccia non più giovane è un altro dei momenti di innegabile bellezza della partitura.
Un che di lievemente irrisolto si riscontra nel finale, con l’apparizione di una giovane volpe, identica a quella uccisa, che finisce per suscitare contraddittori pensieri nell’uomo, ma alla fine si rivela una visione, si tratta di una rana parlante. Carsen lascia in termini allusivi la faccenda, conscio, verosimilmente, di come quest’ultima parte dell’opera (che Janáček volle eseguita alle sue proprie esequie) dilaghi nel regno dell’inconoscibile, quasi sfiorando un certo vago simbolismo. Il ciclo della vita continua, dunque, ineluttabile e infinito.
Sul piano musicale Latham-Koenig, ben assecondato dall’Orchestra del Regio, ha forse spinto un po’ eccessivamente sull’aspetto popolaresco, e allora fragori di danze paesane non estranee a certo Kodály o Bartók, qua e là opulenze straussiane, mentre si sarebbe potuto lavorare forse più di cesello, con maggiori rarefazioni e più differenziazione dinamica nei numerosi passaggi dove evanescenti e inafferrabili scale esatonali non immemori di Debussy si assiepano con magico senso di sospensione. Così pure nei non molti tratti in cui spunti melodici subito risucchiati dalla densità armonica si vanno coagulando come esitanti in una sorta di pudore dei sentimenti e soprattutto del sentimentalismo (affatto assente in questa superba partitura che di tutto può essere tacciata tranne che di essere zuccherosa).
Bene il coro del Regio e benino il coro di voci bianche (non sempre udibile al meglio, soprattutto non sempre udibili le voci infantili di alcuni animali/comprimari, forse anche per eccessi fonici dell’orchestra). Ottimo nel complesso il cast di specialisti con punte di eccellenza da registrare circa i ruoli della volpe Bystrouška (il soprano Lucie Silkenová) e della volpe maschio (il mezzo Michaela Kapustová). Laddove il baritono Svatopluk Sem ha sbozzato un guardacaccia vocalmente autorevole e di impatto; un cenno speciale al tenore Jaroslav Březina per la toccante delicatezza con cui ha restituito il ruolo del timido maestro di scuola. Tutti allineati su un buon livello i restanti (e numerosi) comprimari.
Efficace l’apparato coreografico con momenti di vivace animazione (la pantomima delle galline, davvero irresistibile, ma anche la festosa scena delle danze per il matrimonio – finale atto II – e scatenate movenze che parevano evocare, verosimilmente, il ricordo della Febbre del sabato sera).
Pubblico moderato e guardingo nell’applaudire, molto sabaudo, senza eccessi di entusiasmo, applausi vibranti di fatto solo per la protagonista. Ed è un peccato perché tutto in questo spettacolo convergeva positivamente, spettacolo del quale conserveremo a lungo un gradito ricordo: per l’aspetto visivo non meno che per aver preso coscienza dal vivo degli innegabili tesori musicali profusi a piene mani da Janáček (con caute aperture moderniste qua e là sul ‘900 storico). Entro una partitura di sovrumana bellezza che, impregnata di slavismo folklorico, è stata definita, forse con qualche eccesso, «una specie di sintesi tra Musorgskij, Bartók, Debussy, Sibelius e Mahler». Da rifletterci.
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