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La vedova allegra a Messina

di Santi Calabrò
8 Giugno 2019
in OPERA
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di Santi Calabrò foto © Elisabetta Saija


Dopo essere andata in scena nel 2011, in questi giorni La vedova allegra è stata proposta al Teatro Vittorio Emanuele di Messina in una nuova produzione (allestimento Taormina Opera Stars e regìa di Victor Carlo Vitale). Il pubblico non mostra di esserne sazio: una tale fedeltà alla Vedova potrebbe darsi in altri teatri – considerati il pregio e la popolarità della regina delle operette in tutto il mondo –, ma questa frequenza è sorprendente al Vittorio Emanuele, dove le stagioni sono costrette a centellinare proprio le proposte di teatro musicale. Combinando la griglia oggettiva degli anni al numero medio di produzioni di un teatro, il 2011 a  Messina è… l’altro ieri! Quanto al teatro musicale, in questa stagione Messina ha presentato solo il capolavoro di Lehár (La traviata del novembre 2018 è stato un recupero dopo tormentati rinvii); nelle ultime annate si sono registrati uno, due titoli o addirittura nessuno, e la programmazione musicale – per suo statuto l’Ente Teatro di Messina produce sia musica che prosa – viene di solito completata da produzioni e coproduzioni sinfoniche, spettacoli di danza e altro.

Eppure, il Teatro di Messina avrebbe tutto per proporre melodrammi e operette con più frequenza: l’orchestra non è stabile ma di buon livello, il Coro Lirico “F. Cilea” di Reggio Calabria diretto da Bruno Tirotta non sfigura di fronte ai cori stabili di altri Teatri, il palcoscenico è tecnicamente idoneo, le maestranze sono preparate, e la città ha una storia, un bacino di pubblico e una vita musicale e teatrale tali da rendere ovvia non solo la sopravvivenza ma l’incremento del teatro musicale – vale a dire di ciò che in qualunque città d’Europa si considera offerta culturale di maggior prestigio. L’attuale direzione artistica della parte musicale si sta rivelando accorta e capace di ottimizzare le risorse a disposizione. Cosa manca? Appunto i finanziamenti adeguati. Spesso però periclita anche la stabilità gestionale, con frequenti commissariamenti e lungaggini nell’attribuzione degli incarichi di governo. Da qui la vita spericolata del Vittorio Emanuele.

In un teatro e una città sempre in attesa di tempi migliori, la vedova Hanna Glawari può dunque piazzare il suo ennesimo centro senza preoccuparsi – come forse farebbe in altre città – di concedersi con troppa frequenza. Ci sono ragioni generali e particolari per affermare cotanta vedovanza a Messina in modo che «dell’usato più spavalda voi siete», come direbbe Rigoletto. Di certo La vedova allegra è un “classico”, e il classico per definizione supera la sua epoca e tende a riproporsi oscurando il suo carattere di documento storico; per di più è un classico che gode – proprio nel senso di farsi presente – dell’ambientazione scenica più storicamente appropriata, quella di un fastoso liberty: uno stile che ingloba tendenze artistiche estetiche precedenti e si presta a essere fruito come arte senza tempo, fino a diventare sigla metastorica di evasione, eleganza, distacco e apparente disimpegno, tratti che costituiscono l’altra faccia di una minacciata decadenza.

Ma c’è di più: non solo la tematica letteraria e la realizzazione musicale sono allineate a tutto questo nella Vedova allegra, ma… lo è anche la situazione del Teatro di Messina! «Noi danziam sull’orlo d’un vulcan!», canta Danilo Danilowitsch, riassumendo tutta la complessità di un’opera che spicca in senso simbolico a petto della parabola storica del mito asburgico e dell’Europa, intrecciate verso il precipizio della Grande Guerra, mentre il patrimonio della vedova, provvidenziale per il quasi fallito regno immaginario di Pontevedro, è il deus ex machina che nella finzione si oppone al dissesto economico attraverso la riscoperta del vero amore. E ogni volta che l’appassionato messinese gode nel suo teatro di una produzione di opera o di operetta sa che per troppi mesi se non anni non ce ne saranno altre: anzi, più volte a Messina si è profilata la fine della lirica nel suo tempio, sconsacrato alla lirica e riconsacrato impropriamente alla prosa, alla danza e magari, come usa orribilmente oggi, alle sfilate, ai convegni di medicina e ai matrimoni di lusso. In questa situazione, chi resisterebbe allo charme e ai milioni di Hanna, anche se riproposti di sovente?

Nell’occasione di cui riferiamo un cast di buoni interpreti ha ricreato la magia dell’operetta. Maria Francesca Mazzara (Hanna) e Federico Veltri (Danilo) prestano ai ruoli dei protagonisti una vocalità controllata e uno stile appropriato, la Mazzara in particolare esprime con intensità il ruolo senza far slittare il fraseggio e la vocalità verso l’opera – inconveniente che non sempre le cantanti riescono ad evitare. Manuela Cucuccio è una Valencienne tanto esperta quanto briosa, Marco Miglietta (Camillo de Rossillon) non è da meno, e Paolo Buffagni un buon barone Zeta. La regia di Victor Carlo Vitale cura i movimenti e i tempi con attenzione, e agisce efficacemente sulla caratterizzazione dei personaggi. L’ambientazione scenica fa riferimento alla situazione economica, a sua volta metafora di altre criticità, con il fasto di un’ambasciata elegante ma che reca i segni di una imminente caduta (il lampadario è inclinato e qualche colonna non ben fissata appare instabile). Nel ruolo brillante di Njegus si esibisce un vulcanico e divertente Giancarlo Ratti: Vitale lo fa addirittura cantare a inizio del terzo atto con un fuori programma scherzoso, ma lo spettacolo alla fine risulta anche più agile del solito perché lo spazio concesso a Njegus è compensato da tagli ben concepiti. Giuseppe Ratti dirige l’Orchestra del Teatro, sceglie tempi convincenti e con ogni evidenza coglie il senso musicale dell’opera, ma la situazione, inclusa l’acustica del Teatro, richiederebbe qualche alleggerimento delle dinamiche: soprattutto nel primo atto le voci del cast – che di loro non hanno nella proiezione il loro massimo pregio – risultano talora sovrastate dall’orchestra. Bene il Coro “Cilea”, anche nell’interazione con i ballerini e nella intesa scenica con i cantanti e con i comprimari, che spesso provengono dallo stesso coro lirico. Applausi, battimani festosi durante lo spettacolo, entusiasmo e… qualche speranza in più per le future programmazioni.

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Santi Calabrò

Santi Calabrò

Pianista e musicologo, suona per prestigiose istituzioni, tiene concerti-conferenza e partecipa a convegni in Italia e all’estero. Nelle ultime stagioni ha eseguito con successo diversi concerti per pianoforte e orchestra in Italia, Romania, Ucraina, Bulgaria, e ha tenuto recital e masterclass in varie città italiane ed europee. Svolge attività di critico musicale, pubblica articoli su riviste specializzate ed è autore di saggi per volumi collettanei; si occupa di analisi musicale, drammaturgia musicale, analisi dell’interpretazione, metodologia della tecnica pianistica. Fra i saggi recenti: Tra classicità e teoria degli affetti: Lili Kraus interprete di Mozart (nell’Ebook Punti e contrappunti), La lezione metodologica hegeliana e il “dramma” tonale del sonatismo classico (nel volume Il lamento dell’ideale. Beethoven e la filosofia hegeliana, Eut, Trieste), Artur Schnabel and the Harmonic Functions (nel volume Performance Analysis: a Bridge Between Theory And Interpretation - Cambridge Scholars Publishing), Trasmutazione di un archetipo e sue conseguenze nel I movimento della Sonata op. 110 di Beethoven (Rivista di Analisi e Teoria Musicale). Vincitore di concorso nazionale, insegna presso il Conservatorio di Messina.

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