di Santi Calabrò
L’incolmabile distanza che separa l’operetta dell’opera – tanto prossime quanto su crinali in realtà opposti – si potrebbe apprezzare anche solo dalla diversa funzione del tenore: il giovane innamorato nell’opera può essere più o meno eroico, più o meno fortunato (di solito viene corrisposto), più o meno abile a fare gli interessi suoi e della sua amata, ma non può essere mai ridicolo perché ne verrebbe compromessa non tanto la tenuta drammaturgica complessiva, quanto il sistema assiologico soggiacente. L’opera settecentesca e ancor più quella romantica hanno bisogno dello slancio e della fiducia idealistica del giovane innamorato perché esprimono entrambe società in ascesa, che individuano nell’amore vissuto positivamente dall’uomo giovane, il tenore, una sorta di specchio nel quale ritrovano se stesse e la propria fiducia nel futuro. Un’operetta del 1905 qual è La vedova allegra di Franz Lehár, andata in scena al Teatro “Bellini” di Catania, ha come presupposto l’intera parabola della borghesia ottocentesca – prima legata trionfalmente ai valori della Rivoluzione francese, poi andando avanti nel secolo sempre più ripiegata sul particulare del tornaconto economico e del mantenimento dello statu quo –: una classe sociale, dunque, che passa per una serie di sconfitte e di compromessi prima di buttarsi, qualche anno più tardi, nelle braccia dei nascenti imperialismi. L’addio irreversibile al personaggio del giovane innamorato in quanto eroe – l’innamoratissimo Camille de Rossilon nella Vedova allegra è ormai colorato da un evidente pimento parodistico -, è in realtà l’addio all’amore in quanto epitome di tutti i valori positivi nei quali aveva creduto la borghesia del secolo precedente, l’abdicazione al proprio ruolo nella Storia, il ripiego su posizioni di difesa e di compromesso.
In questo senso, lo stesso protagonista maschile della Vedova, il Conte Danilo Danilowitsch, non è un “innamorato” nel senso rigoroso del termine: il suo personaggio è piuttosto quello di un viveur che ritrova l’amore per caso e a sua insaputa.
Quanto invece alla protagonista femminile, lì si apprezza veramente l’“eterno femminino”: la Vedova Hanna Glawari è accorta e spregiudicata come legioni di altri personaggi sette e ottocenteschi, dalla Serpina della Serva padrona ad Amina nell’Elisir d’amore. Non ci sono irreversibili mutamenti, nessuna frattura ideologica a marcare una differenza di status rispetto alle sorelle precedenti, nessuna evoluzione sostanziale: forse perché il ruolo della donna, dall’epoca di Pergolesi a quella di Donizetti e quindi di Lehár rimane inchiodato a una fissità sovratemporale, fedele a una posizione sociale immutabilmente subalterna. Eloquente, in questo senso, l’epilogo della storia. La Vedova di Lehár si prende infatti per tutta l’opera il lusso di essere indispensabile al piccolo Stato del Pontevedro, che non può fare a meno dei suoi soldi. A scongiurare però l’eventualità che la ricchissima Hanna Glawari possa dominare dal punto di vista economico non solo lo Stato ma, in modo più grave a livello simbolico, il secondo marito – un boccone difficile da mandare giù persino per la società désabusé della Belle Époque –, interviene la provvidenziale clausola del testamento per la quale la bella vedova, risposandosi, perderà tutti i suoi soldi a vantaggio del futuro sposo: la supremazia economica maschile è salva, anche se l’escamotage che la rende possibile pesa come un macigno sull’orgoglio di tutti gli uomini del Pontevedro – e non solo di quelli.
In tutto questo gran parlare di soldi, l’operetta di Lehár profonde tesori di raffinatezza, malizia e grazia che incantano oggi come all’epoca in cui è stata scritta. È vero che Lehár non ha la cattiveria sottile e la superiore, tagliente, ironia con cui Offenbach dipinge la società francese nelle sue operette, ma forse lo sopravanza in termini di nostalgia e di sogno: come se i sensori della musica fossero sintonizzati su una situazione dello spirito se possibile ancora più complessa, quella viennese, sospesa tra il disfacimento imminente di un impero e il fulgore terminale della sua cultura.
Vittorio Sgarbi – critico d’arte, polemista e scrittore – ma soprattutto neo-assessore alla Cultura di una giunta siciliana nominata in mezzo a molte polemiche, coglie le armoniche della Vedova allegra con sensibilità e intelligenza. Posto di fronte al dilemma di voler dare da una parte all’opera tutto lo splendore, il lusso Ars nouveau che le è indispensabile, e pressato dall’altra da una palpabile assenza di risorse, Sgarbi sceglie la soluzione più accorta e adeguata al teatro: gioca tutto sull’illusione. Il décor è infatti quello del lusso fin de siècle più opulento, per un gioco prezioso di marmi e di intarsi dai colori pastello, in una scena che in realtà è totalmente spoglia: fanno tutto le proiezioni degli interni sontuosi delle Terme Berzieri di Salsomaggiore, volute qui come quintessenza d’eleganza per la più raffinata fra le epoche. Sgarbi, che cura anche i costumi, veste quindi i suoi protagonisti con i begli abiti tramandati dalla pittura degli impressionisti, e dà corpo con i soli costumi e lo sfondo dei saloni delle Terme Berzieri a un’ambientazione persuasiva. Certo, la situazione ha anche degli inconvenienti. In assenza di qualunque arredo scenico, i personaggi non si possono occupare di nessun oggetto d’uso, nessun mobile, nessuna suppellettile, mentre discutono di un amore contrastato – come quello tra la piccante Valencienne e l’innamoratissimo de Rossilon – o si preoccupano delle periclitanti finanze del Pontevedro – come il Barone Mirko Zeta e il Cancelliere dell’ambasciata pontevedrina Njegus -. A tratti, nella nudezza provocante della scena, si sfiora l’impressione di un teatro sperimentale e involontariamente underground, ma è un attimo che passa non appena il palcoscenico si riempie di nuovo di personaggi, di movimento e di bei vestiti d’epoca.
Ottima, nel complesso, la parte musicale. Se non tutti i protagonisti hanno autentici numeri vocali, si fanno però apprezzare per una grande scioltezza di recitazione e preciso senso dei tempi “buffi”: le battute, riscritte e tarate sull’attualità italiana e ancora più catanese – si colgono spesso riferimenti al “Teatro Bellini”, cioè al qui e ora dello spettacolo -, vengono snocciolate da tutti i protagonisti con la maestria di attori consumati. Guida la cordata il veterano Tuccio Musumeci (Njegus), spiritoso e apprezzatissimo dal pubblico, e così pure Armando Ariostini (il Barone Mirko Zeta), in un ruolo che sembra tagliato su misura per lui. Fanno molto bene sia Emanuele D’Aguanno (misurato nella difficile parte di Rossilon, sospesa tra il sublime e il ridicolo) che Manuela Cucuccio: talmente brava e a suo agio nella parte della vivace Valencienne da rischiare il Cancan in prima persona. Il Conte Danilo è Fabio Armilato: vocalmente non molto attraente, ma anche lui bene inserito nel meccanismo a orologeria dei tempi comici, e quindi alla fine apprezzabile. Al contrario di Armilato, Silvia Dalla Benetta è una Vedova con una bella voce dal timbro screziato ma non perfettamente sintonizzata sul suo personaggio perché sprovvista della qualità più importante per una primadonna d’operetta: la grazia. La “canzone di Vilja”, per esempio, che è un inserto di sentimentalismo provocatoriamente naïf in un personaggio che non lo è affatto, viene cantata come se fosse un’aria di Verdi, cioè con un sentimento vero qui fuori posto. La raffinata parodia dell’espressione sentimentale, nell’operetta, presuppone un equilibrio molto difficile da mantenere, e costituisce la specifica difficoltà per la sua esecuzione: senza poter restare del tutto sentimentalmente distanti, se si cede e si prende sul serio il sentimento si scivola subito nel Kitsch. Bella anche la prova del direttore Andrea Sanguineti: se non è incolpevole rispetto all’aria di “Vilja”, staccata troppo lenta, per il resto guida la buca e il palcoscenico con eleganza e precisione. I punti topici dell’opera come il Cancan, fatto ritmare dal battimani del pubblico entusiasta, scorrono con elettrizzante coinvolgimento di tutti, e l’attimo in cui il celeberrimo Valzer si libra dall’orchestra – un’invenzione che da sola varrebbe l’immortalità per Lehár – regala al pubblico sintonizzato su questa storia alquanto greve di soldi e infedeltà coniugali, di grisette e ricchi signori che passano il loro tempo chez Maxim’s, un gesto musicale che vale un’epoca.