Opera • Il Teatro Mariinskij al Konzerthaus di Vienna per l’opera di Berlioz: tra autoritarismo ed esattezza descrittiva, la direzione di Gergiev rinnega sfumature e narrazione. Nella compagnia di canto svetta il mezzosoprano Semenchuk
di Francesco Lora
LA SINFONIA DRAMMATICA Roméo et Juliette, l’opera Les Troyens, la scena lirica La mort de Cléopâtre e la sinfonia con viola solista Harold en Italie: la tournée di Orchestra e Coro del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo, per tre concerti al Konzerthaus di Vienna dal 25 al 27 ottobre, è stata di fatto un piccolo festival dedicato a Hector Berlioz. Una particolare aspettativa ha riguardato, il giorno 26, l’esecuzione dei monumentali Troyens: in essi il Mariinskij ha esibito i propri organici nel loro più ampio schieramento e ha presentato una compagnia di canto formata da artisti poco noti nell’Europa occidentale. Per rendere conto di questo Berlioz à la russe, dunque, ci concentriamo qui sul titolo operistico e sulla lettura che ne ha dato Valery Gergiev.
Sotto la sua bacchetta, orchestra e coro sono disciplina, ubbidienza e prostrazione, quasi che ogni aspetto tecnico o espressivo non possa essere attribuito che al capo. Nel gesto di Gergiev lo sgomentante autoritarismo convive con una rara esattezza descrittiva: ciascuna fila di strumentisti o coristi riceve da lui, di momento in momento, istruzioni sollecite e minuziose a proposito di tempi, dinamiche e colori, i quali a loro volta paiono scelti da un campionario fisso anziché ricercati caso per caso. Berlioz o non Berlioz, l’approccio è positivistico: si direbbe che Gergiev limiti il testo musicale a ciò che è stato o può essere scritto, emarginando il suono in sé da un’idea artistica superiore e standardizzandolo nelle sue vie espressive di convenzione. E se a suo modo questo è un virtuosismo, a suo modo questo non è nemmeno un complimento.
Per tornare ad aspetti più concreti, Gergiev esegue integralmente con la sola omissione delle danze dell’atto III (cos’avrà poi fatto di male quella manciata di minuti in un’opera di quattro ore?), abdica da un credibile ruolo di narratore e si compiace assai degli sfoghi machisti a piena orchestra (in particolare nella Chasse royale et orage, dove tuttavia i fulmini scagliati da Zubin Mehta, Firenze 2002, avevano altro fulgore e schianto). Accompagna il canto in base alla legge di Darwin: se la voce vuole arrivare alla fine dell’opera, deve farcela con le proprie forze, senza confidare nell’aiuto di un podio impassibile. Nella selezione naturale, ciò premette a liste di vincitori e vinti. Il soprano Mlada Khudoley, come Cassandre, fatica in una tessitura per lei troppo grave, pronuncia il francese in modo censurabile e impersona senza carisma veruno un personaggio tra i più vertiginosi del repertorio lirico. Per ironia della sorte, al fianco le tocca il Chorèbe di Alexei Markov, baritono di singolare signorilità e perizia linguistica. Un unico discorso accomuna i tenori Sergey Semishkur, Dmitry Voropaev e Alexander Timchenko, come Énee, Iopas e Hylas rispettivamente: voci chiare e svettanti ma impostate con un appoggio eccessivo, vantano bel corpo nel registro centrale ma tendono a traballare o ingolfarsi nell’ascesa a quello acuto.
Le sorprese migliori si trovano tra le altre signore: il soprano Anastasia Kalagina – tra l’altro la meglio vestita: un dignitoso lungo scuro con punti brillanti, esorcistico contraltare all’improbabile bomboniera lilla indossata dalla Khudoley – è un Ascagne di rapinosa freschezza interpretativa e disarmante eleganza di fraseggio, mentre il contralto Zlata Bulycheva è un’Anna vellutata e femminile nonostante l’abisso della tessitura. La Bulycheva è inoltre idealmente assortita con la trionfatrice della serata, Ekaterina Semenchuk, corsa a Vienna all’indomani della “prima” di Aida alla Scala: più immediata che ricercata, più generosa che maliosa, più pragmatica che epica, la sua Didon irradia tuttavia sugli ultimi tre atti dell’opera un’ardore espressivo e una passione teatrale prima impensati.
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