Al Nationaltheater uno spettacolo complessivamente monocromo: Petrenko sceglie la cautela, i cantanti soddisfano a fatica i virtuosismi belcantistici, la regia è coerente ma poco attenta ai nodi del dramma
di Riccardo Rocca foto © Wilfried Hösl/Bayerische Staatsoper
ANDATE DELUSE LE UTOPIE di coloro che, per un ritorno di Gaetano Donizetti tra le nuove produzioni della Bayerische Staatsoper, avrebbero sperato di imbattersi, tra i più di settanta disponibili, in un titolo meno collaudato rispetto a Lucia di Lammermoor, il fuoco delle aspettative si è orientato sul Generalmusikdirektor Kirill Petrenko, cimentatosi con il melodramma napoletano tra una ripresa della Frau ohne Schatten e una del Ring: in un’area come la Germania, dove si assiste con un certo ritardo alla piena (ri)valutazione dell’opera italiana preverdiana – e l’affermazione del sovrintendente Bachler, secondo cui questa Lucia avrebbe definitivamente dimostrato (!) l’appartenenza di Donizetti ai più grandi geni del teatro musicale ne è una conferma – ci si potrebbe anche ritenere soddisfatti di una realizzazione musicale aggiornata nell’adozione dell’edizione critica ed affidata ad una bacchetta tra le più dotate degli ultimi anni.
Ripensare al fatto che tra il 1954 ed il 1956 Karajan diresse un’epocale Lucia non solo a Milano, ma anche a Berlino con l’Orchestra della Radio e a Vienna con la Scala, ci costringe tuttavia a ridimensionare gli entusiasmi. Se infatti i meriti di Petrenko, molto apprezzati in altro repertorio – anche italiano, come è stato il caso nel 2013 di una formidabile ripresa di Tosca – assicurano anche a Donizetti un’esecuzione orchestrale limpida, precisa e curata nel minimo dettaglio, essi assumono un peso diverso se considerati alla luce non solo delle ricordate, quasi pionieristiche, interpretazioni di Karajan, ma anche di importanti conquiste interpretative più recenti, come la Lucia incisa da Mackerras nel 1997 con la Hanover Band. Le ragioni di un’interpretazione interessante possono infatti in buona parte risiedere (ma difficilmente esaurirsi) nell’assenza di tagli e nell’utilizzo di un testo restaurato (nel caso di Lucia, per casa Ricordi, da Gabriele Dotto e Roger Parker). A che pro eseguire infatti tutte le ripetizioni e riaprire i passi tradizionalmente tagliati se essi debbono risuonare come meccanico esercizio deontologico, quando servirebbero invece a ripristinare equilibri drammaturgici altrimenti spezzati e sfumature espressive a cui qualche interprete decise di rinunciare – magari a ragione – in una determinata circostanza? L’impressione è, nel caso di Petrenko, che l’adozione del testo scientifico e l’integralità testuale siano scelte piuttosto di natura ideologica che non finalizzate ad un obiettivo.
Ecco dunque la sua Lucia risuonare pulita come forse mai prima al Nationaltheater: memorabile il virtuosismo timbrico del clarinetto di Andreas Schablas che con frementi arpeggi accompagna l’eroina in «Regnava nel silenzio» e magnificamente introduce il duetto Lucia-Enrico; interessanti le forcelle nel sestetto «Chi mi frena in tal momento»; suggestivi i clangori della tempesta di apertura del secondo atto. Eppure i nodi fondamentali dell’opera (come la scena del contratto nuziale), la stessa pazzia o il finale ultimo, vengono trattati con elegante indifferenza da un Petrenko timoroso di soverchiare i cantanti o di colorire teatralmente gesti musicali che pure a tale scopo vennero pensati, secondo un’inesorabile disciplina di controllo della pulsazione che nessuno spazio concede al rubato. Quello stesso Petrenko, che così magistralmente ripulisce Puccini dalle svenevoli ruffianerie di tradizione senza comprometterne le architetture, non riesce a realizzare lo stesso in un Donizetti che risuona sì ripulito, ma penosamente monocromo. Lungo, lunghissimo diventa così il duetto Lucia-Edgardo del primo atto; poco ragionevole nei confronti dell’interprete disponibile diventa la cabaletta di Enrico eseguita integralmente; banali segnalazioni semaforiche per gli applausi (per altro fiacchi) diventano quelle formule cadenzali alle quali, in una realizzazione dinamica appiattita, non è consentito esplicitare il palpito degli affetti. Paradossalmente, dunque, una lettura di Lucia come quella di Petrenko, nonostante i diversi presupposti, finisce per non essere troppo distante nei risultati da certa sciatta tradizione esecutiva che di interrogativi filologici, altrettanto ideologicamente, non si è mai interessata.
Da Petrenko, e in generale da una nuova e moderna Lucia basata sull’Urtext, ci saremmo anche aspettati una riflessione più profonda nei confronti delle vocalità. Il ripristino delle tonalità originali è stata effettuata solo in parte, visto che sia il duetto Lucia-Enrico, sia la grande scena del secondo atto di Lucia sono stati eseguiti trasposti; il che non sarebbe grave se non fosse che la cavatina di Lucia è stata invece conservata in tono con non poche difficoltà per una Damrau non più comodissima ai mi bemolli sovracuti. Se si deve trasporre, dunque, che lo si faccia veramente al servizio dei cantanti; se invece si vuole rispettare il progetto originale di Donizetti, come lascerebbe ad intendere l’uso di un’edizione critica, i cantanti andrebbero opportunamente individuati a misura di tale progetto.
La Lucia di Donizetti, oltre a non prescrivere la lunga cadenza di tradizione introdotta da Nellie Melba quarant’anni dopo la morte del compositore, oltre a prevedere la scena della pazzia in fa maggiore piuttosto che in mi bemolle – tonalità comoda ad agevolare puntature possibili ma non obbligatorie –vorrebbe il baricentro dell’opera spostato sulla figura di Edgardo molto più di quanto le tarde convenzioni esecutive abbiano portato a credere: non è un caso che la grande scena finale, negata all’eroina, funzioni come un’esplicita celebrazione delle virtù di Gilbert Duprez, creatore della parte. Si potrà dunque immaginare quanto stravagante sia, sotto questo punto di vista, la scelta di un tenore bravo ma fragile e leggero come Pavol Breslik per la parte di Edgardo: connotata da Donizetti e Cammarano con toni romantici magniloquenti e un po’ spacconi, essa assume addosso a Breslik, complice l’insistere della regia su una dimensione hollywoodianamente vanesia del personaggio, toni inevitabilmente umoristici; non sono naturalmente mancate le risatine in sala all’apparire di una proiezione con Breslik, novello James Dean, alla guida capelli al vento di una cabriolet lanciata a tutta velocità durante la tempesta e alla quale farà seguito un incidente. Se a tutto ciò si aggiunge per Enrico la scelta di un truce Dalibor Jenis, caratterialmente in parte, ma dalla voce indurita come si usa spesso in Verdi, e dunque ben poco flessibile alle domande belcantistiche della scrittura, questa Lucia finisce sempre più per apparire, nonostante la pur lussuosa interpretazione della Damrau, come un’occasione divertente, ma sostanzialmente mancata.
Lo spettacolo di Barbara Wysocka immagina la vicenda in un ambiente riconducibile agli anni Cinquanta; insinua turbamenti infantili nella figura di Lucia presentata all’inizio da bambina con quella stessa pistola che impugnerà nella scena della pazzia. Se complessivamente la storia è raccontata in modo coerente, non bastano tuttavia un paio di scrivanie in scena e la protagonista in tailleur per ripetere il successo del Roberto Devereux di Christof Loy. La Wysocka offre infatti una lettura unitaria dell’opera, ma non pochi sono i momenti nei quali la regia dei personaggi si spegne come impotente rispetto alle percepite lungaggini del testo musicale: il duetto Edgardo-Lucia, con quei tre quarti che tutt’altro dovrebbero sembrare piuttosto che un’annoiata cantilena, vede i due protagonisti in piedi in scena ad eseguire il pezzo come in concerto; il sestetto, in questa come in quasi tutte le regie, è considerato a priori un pezzo da concerto; il finale del secondo atto è la solita scena alla quale accorrono telecamere e paparazzi secondo uno schema visto molte volte. Certo è impegnativo concepire immagini oggi pertinenti e profonde per un pezzo di teatro vecchio di centottanta anni (Napoli, Teatro di San Carlo, 1835), ma non sta forse lì l’avvincente sfida del regista d’opera?